Improvvisazione e cecità, così i buoi scappano… Dinamo Sassari, guarda in faccia i problemi, quelli veri

Meo Sacchetti, allenatore della Dinamo Sassari

Meo Sacchetti, allenatore della Dinamo Sassari

La sconfitta patita dalla Dinamo Sassari a Trento ha aperto ufficialmente quella crisi che attenuanti sempre pronte e nuove, unite a credito incondizionato verso squadra e società, avevano rinviato ripetutamente. La Dinamo è un malato grave, e continuare a non prenderne atto può portare solo danni ulteriori. Ragioni tecniche, ambientali e soprattutto tattiche, a formare una catena dove gli anelli non hanno vita propria, ma sono saldati dal tempo e da un certo tipo di mentalità che non si confà ad una “grande”.

Per la prima volta da quando è a Sassari, sul banco degli imputati è finito a pieno titolo anche Meo Sacchetti. Più di un allenatore: l’uomo della promozione in Serie A, il nocchiero dei due “portapenne” (Coppa Italia e Supercoppa) e delle due semifinali scudetto, ma anche un emblema della Dinamo targata Sardara, con tutto quello che ciò significa. Ecco, le vittorie. Ultimamente quasi un miraggio per questa Dinamo, che squadra non lo è più, e che probabilmente non lo è mai stata del tutto in quattro mesi di vita.

Sarebbe sbagliato limitarsi a parlare di facce, di non-campioni, di spogliatoio non idilliaco. I problemi a livello di rapporti ci sono, non recenti e non di poco conto. Ma l’impressione è che la radice del momento più buio dall’approdo nell’Olimpo del basket italiano ed europeo sia da cercare nell’assenza di un quadro tecnico-tattico. La famosa chimica, chiamata in causa spesso a sproposito, non è e non può essere solo semplice feeling tra persone in canotta. Auspicabile, certo, ma anche edificabile grazie ad un’organizzazione di cui la Dinamo, oggi, è sprovvista. Dal “corri e tira” made in Sacchetti, su cui si è sempre e giustamente discusso, si è passati ad un’improvvisazione estrema, totale. Una filosofia che poteva esaltare molti dei giocatori passati dalla Dinamo negli anni scorsi, ma totalmente indigesta a cestisti che non possono aver lasciato la capacità di giocare d’assieme oltre Tirreno.

Jerome Dyson e Jeff Brooks, qui contro Pesaro (foto: SardegnaSport.com)

Jerome Dyson e Jeff Brooks, qui contro Pesaro (foto: SardegnaSport.com)

Finora, in questa stagione e nelle precedenti ai massimi livelli, il leit motiv in sede di analisi era stata la necessità di difendere meglio, di trovare equilibrio con l’operato delle bocche da fuoco. Un aspetto che la Dinamo ha dimostrato di saper curare, magari non per 40′, ma con ottima efficacia. Lo aveva fatto anche a Trento prima di propendere per la doccia anticipata e “giocare” il secondo tempo in pantofole. L’unica vera, grande vittoria di questa stagione è arrivata grazie all’applicazione collettiva sotto il proprio canestro, contro lo Zalgiris Kaunas (ultimo avversario, venerdì in Lituania, della campagna in Eurolega).

Si è gioito in Supercoppa, è vero, ma davanti c’erano una Virtus Roma precaria e una Milano appena svegliatasi, che infatti ha avuto vita facile (non illuda il punteggio di 111-112) dieci giorni fa a Sassari. Quando la Dinamo è stata messa alla frusta (in Europa e poi a Cantù, Capo d’Orlando, Trento) si è sciolta come neve al sole, denotando proprio l’assenza di nerbo all’interno della struttura. Già Bologna, Brindisi e Avellino avevano fatto tremare il Pala Serradimigni, cedendo però sotto il profilo atletico e a causa del gap alla voce “singoli”. Solo a Pistoia e Roma, pur senza incantare, la Dinamo aveva lasciato soddisfatti, considerato anche il fattore campo avverso e fatale nella stagione scorsa.  Occorre guardare soprattutto al comportamento sul suolo italico per commentare l’operato biancoblù. Perché l’Eurolega era poco più che una passerella scintillante, con la palla a spicchi a fare da tassello tra i tanti, e perché l’Eurocup non vedrà quasi certamente l’attenzione delle precedenti due stagioni.

Di questo passo, la Dinamo è destinata a soffrire non poco, anche sui campi di “provincia”. Mentre inizialmente potevano bastare le improvvise sfuriate offensive e, più spesso, difensive per “sfangarla”, a Trento il castello è crollato, imponendo una riflessione. L’illusione che ci fossero da limare solo cali d’attenzione fisiologici agli albori stagionali si è trasformata in impietosa sottolineatura dei deficit diffusi. I ragazzi di coach Buscaglia (un bravo grande così per lui) sono riusciti a completare l’opera accarezzata da Avellino nel giorno dell’ultimo successo sassarese (prima di 6 stop). Idee chiare in attacco, capacità di soffrire e aspettare che il bombardamento dei tiratori Dinamo passasse, per poi colpire senza pietà. Una volta inceppatosi il tiro da tre (troppo raramente costruito con blocchi, circolazione perimetrale, penetra-scarica), la Dinamo Sassari va troppo spesso fuori giri, incapace di riordinare le idee e ripartire variando le soluzioni. Perchè il parziale di 24-0 subito all’inizio del terzo quarto a Trento non può essere imputato solamente alle lacune di una regia a tratti schizofrenica, ma anche alla scarsa capacità dell’allenatore di porre immediato rimedio, bloccando le emorragie prima che diventino fatali.

Federico Pasquini e Mbdoj, ultimo arrivato in casa biancoblù

Federico Pasquini e Mbdoj, ultimo arrivato in casa biancoblù

Siccome è impossibile credere che i Dyson e i Logan, i Sosa e i Sanders abbiamo dimenticato le basi, appare evidente la presenza di mali profondi, non si sa quanto curabili nella stagione in corso. Il pubblico tifoso, umorale e irrazionale come è giusto che sia, punta il dito contro la personalità che manca, contro il mancato rispetto dei giocatori verso maglia e popolo. Fino all’anno scorso c’erano due signori, Drake e Travis Diener, particolari per molteplici aspetti. Inutile (e sbagliato) fare confronti. Importante ricordare, appunto, la peculiarità di quei due americani nel contesto Dinamo: dal rapporto viscerale con la stampa e la proprietà, a quello con parte della tifoseria, organizzata e non. Elementi di un collante che saldava anche il resto del gruppo, italiano e straniero. Gruppi, al plurale, presenti invece oggi, per quella catena di cui sopra che genera problemi su problemi.

E allora, come uscire dalla crisi? Intanto capendo che le difficoltà a livello di chimica sono un effetto e non la causa dello scarso rendimento. Che ci sono giocatori con determinate caratteristiche (i Dyson e i Diener, per esempio) che in un certo sistema (il “run and gun”) si possono deprimere o esaltarsi (i Diener, appunto, ma anche Caleb Green), e che si è sbagliato qualcosa, forse molto. Perché se a dicembre devi inserire nel roster Mbodj dopo aver salutato due pari ruolo (Cusin e Tessitori) qualcosa non va, eufemisticamente parlando. Perché se rifiuti di andare sotto canestro, scegliendo pivot destinati a subire non solo Samardo Samuels due volte l’anno, affidandoti ad un’unica arma in maniera aleatoria, ti devi chiedere se davvero il prossimo “step” può essere fatto. Quello che ti fa scrivere la storia, anziché rimpiangere a vita i tempi in cui eri “Cenerentola” e tutto ti era perdonato, perché il prossimo successo doveva zittire tutti e perché “ricordate da dove veniamo”.

Quando il gioco si fa duro, bisogna andare sotto, bisogna sgomitare. L’abbiamo detto e sentito un’infinità di volte, in risposta alla fatidica domanda: “Col gioco di Sacchetti si vince?”. No, non si vince, non nel lungo periodo. Si, si vince, forse, ma in quei “flash-moment” come le Final Four o Eight, che purtroppo per Sacchetti, Sardara e la Dinamo non sono ancora state adottate per assegnare il titolo di campione d’Italia.

Fabio Frongia

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