Un anno fa arrivava Zeman: solo vinti e macerie ricordando Popper
L’utopia è una dottrina attraente, anzi fin troppo attraente e addirittura pericolosa e nociva : firmato Karl Popper. Sono passati dodici mesi esatti dalla caldissima mattinata dell’1 luglio 2014 e dalla presentazione di Zdenek Zeman quale nuovo allenatore del Cagliari. Le parole del pensatore austriaco rappresentano una fotografia quanto mai esplicativa dell’esperienza in terra sarda (e non solo) del boemo. Ma cosa è rimasto a Cagliari dopo una stagione fortemente segnata dall’ingaggio di Zeman?
I ricordi di un travolgente entusiasmo, di un’estate vissuta sull’onda di una contagiosa euforia che a Cagliari era ormai sopita da qualche stagione. La sensazione di una nuova primavera, rivoluzionaria e riformatrice, della quale Sdengo era il naturale simbolo. Perché, sia che siate suoi ammiratori o suoi detrattori, è innegabile che pochi personaggi nel calcio moderno stimolino illusioni e autorizzino sogni come lui. E’ anche Cagliari perciò non è stata immune da questo attraente luccichio. Un precampionato segnato da qualche campanello d’allarme nelle amichevoli e gli ormai mitici gradoni a giustificare le prime preoccupanti avvisaglie di una stagione che (è sempre facile col senno del poi..) avrebbe portato poche gioie e molti dolori. Perché la luna di miele tra Cagliari e il boemo aveva messo in preventivo anche questo: il rischio della sconfitta in nome del divertimento.
L’inizio della stagione a sugellare proprio questo concetto, perfettamente espresso dal primo match interno contro l’Atalanta di quel Colantuono a cui l’idea di gioco spumeggiante interessa meno del colore dei calzettoni degli avversari. E pazienza se la classifica iniziava reclamare i punti, giocando in quel modo e con un pizzico di fortuna in più il Cagliari si sarebbe tolto tante soddisfazioni. L’arrivo dell’autunno stava lì, pronto a confermare questa tesi, infatti pochi tifosi dimenticheranno l’ebrezza provata dopo il sacco di San Siro o l’orgoglio (misto a recriminazioni) dopo aver fatto tremare Milan e Napoli. Ma le montagne russe targate Praga non smentiscono la loro naturale propensione all’up and down emotivo e si arriva così al 30 novembre, quando al Sant’Elia arriva la Fiorentina. E’ diffusa la convinzione (confermata dalle prestazioni successive, andate in calando) che quel pomeriggio il giocattolo Zeman si sia rotto: una dirigenza sempre meno accondiscendente davanti ai tanti gol subiti, una difesa sempre più intimorita nell’alzare il proprio raggio e una squadra in generale sempre più sfiduciata nel morale e nei dettami del proprio tecnico. Le prestazioni di dicembre lì, pronte a confermare l’idea di un allenatore a cui le redini della squadra erano ormai sfuggite, come apparso dall’incontro giocato a Parma (ancor più del match contro la Juve) dove scese in campo la squadra provocatoriamente meno zemaniana della sua lunga carriera.
L’inevitabile esonero il 24 dicembre, con una piazza spaccata in due, tra chi sotto l’Albero organizzava manifestazioni pro-Zeman in viale La Playa e chi invece vedeva l’incubo della Serie B aleggiare sul Sant’Elia. Tutti però uniti da quell’amarezza tipica dei sogni di mezza estate visti infrangere davanti alla dura realtà. L’interregno targato Zola, inutile per risollevare la china di un Cagliari sempre più agonizzante, si rivela una breve parentesi prima del ritorno in sella del boemo, richiamato per re-iniettare quell’ottimismo e quella fiducia che in estate aveva pervaso l’intera isola. Una fiducia che, come dichiarato dallo stesso allenatore, durerà 90 minuti (93’ per la precisione) per poi evaporare davanti al gol dell’ex siglato da Matias Vecino. Il resto è solo un lento trascinarsi verso la fine della stagione tra polemiche, recriminazioni (3 mesi persi) e la sensazione dilagante di aver buttato alle ortiche una stagione, fino alle dimissioni post-Napoli e un addio nell’indifferenza generale. La fine più triste per una guida accolta a inizio anno in pompa magna, tra proclami ed entusiasmo.
E’ questo il triste bilancio della parentesi rossoblù targata Zeman. Con una squadra costretta a salutare dopo più di un decennio la Serie A e un allenatore che vede andare in fumo l’ultima (probabilmente) occasione ai massimi livelli (con tutto il rispetto per il campionato elvetico) della sua carriera. Non ci sono vincitori ma solo vinti in questa esperienza a dimostrazione che si, Popper aveva ragione: le utopie possono rivelarsi dottrine pericolose.
Stefano Sulis
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