Il sorriso di Datome splende a Boston: e se da San Antonio fosse arrivato un messaggino?
Gigi Datome e l’NBA, un rapporto difficile in questi primi venti mesi di convivenza, caratterizzato da pochi up e molti down. Un rapporto che mostra però, i primi spiragli di luce, grazie alla nuova esperienza targata Boston Celtics, la franchigia più vincente della storia NBA.
E’ il 19 febbraio scorso quando Datome si trasferisce dai Detroit Pistons ai Boston Celtics, all’interno di una trade che vede protagonisti anche Jonas Jerebko, il quale compie lo stesso percorso dell’ala olbiese (seppur nativa di Montebelluna) , e Tayshaun Prince che compie, invece, il percorso inverso. Una vera e propria sorpresa anche per il giocatore stesso, vittima di un ostracismo per molti versi ingiustificato in quel di Detroit e paracadutato nella baia di Boston, realtà completamente diversa e dal blasone impareggiabile, nella quale al 39enne Brad Stevens è stato affidato il compito di ricostruire i Celtics dell’era post big three, epoca che ha riportato il successo a Boston dopo oltre vent’anni di astinenza. Da questo trasferimento, Datome ha riacquisito quell’entusiasmo che, a causa delle numerose panchine di Detroit, era progressivamente scemato e la sua “fame” di gioco è letteralmente esplosa all’American Airlines Arena di Miami, al cospetto di quegli Heat che, pur privi del figliol prodigo Lebron James, presentano un roster dall’indubbio talento. In casa Heat così, quel ragazzone col 70 sulle spalle (in onore della Santa Croce Olbia, sua prima squadra) ha prodotto la miglior prestazione della sua carriera a stelle e strisce condita da 13 punti (5/7 da due e 1/2 da tre) e tre rimbalzi in ventuno minuti di gioco. Tanta carne al fuoco, a maggior ragione se si considera la probabile carenza di ritmo partita, frutto dei garbage time e delle tribune riservategli dal coach dei Detroit Pistons, Steve van Gundy.
Datome, se ce ne fosse stato bisogno, ha così dimostrato tutta la sua professionalità. In un momento nel quale molti giocatori avrebbero gettato la spugna, ha continuato a lavorare, aspettando la sua occasione e dimostrandosi insensibile alle sirene che lo richiamavano dall’Europa perché aggrappato con le unghie e con i denti al suo sogno NBA, fattore estremamente importante in quel mondo, dove il rispetto degli addetti ai lavori è un elemento imprescindibile per lo sviluppo di una carriera. E chissà che, in quei giorni così difficili, non gli sia arrivato un messaggio d’incoraggiamento da San Antonio, Texas. Perché se c’è un esempio da cui trarre ispirazione in questi casi, lo si trova sotto il sole texano, parla italiano (con cadenza emiliana) e risponde al nome di Marco Belinelli. La guardia italiana, più di ogni altro, può comprendere le difficoltà legate al mondo del basket made in USA ma, allo stesso tempo, riuscirebbe a descrivere il sapore della vittoria alla fine della scalata. Dopo un lungo peregrinare e alternando diverse fortune, a partire dai Golden State Warriors (lontani parenti dei dominatori attuali della Western Conference) e passando per Toronto, New Orleans e Chicago, il giocatore di San Giovanni in Persiceto ha trovato la sua El Dorado a San Antonio, casa di quegli Spurs capaci di vincere 5 titoli negli ultimi quindici anni, l’ultimo dei quali proprio la scorsa stagione, e proprio con Belinelli nelle vesti di attore protagonista.
La lezione del bolognese perciò, esprime al meglio il concetto secondo il quale i treni passano e premiano la costanza e la determinazione. Il titolo NBA è un privilegio riservato a pochi, ma un’apprezzabile carriera nell’Olimpo della palla a spicchi è nelle corde di quel ragazzone che più di dieci anni fa lasciò la Sardegna per inseguire il suo sogno, e se molte pagine della carriera di Datome sono ancora da scrivere, magari il finale, dopo aver riservato degli spunti amari, sarà prodigo di piacevoli sorprese. Del resto, il colore che indossa lascia ben sperare…
Stefano Sulis