Emanuele Rotondo, nel mondo del basket, vuol dire Dinamo Sassari. Sedici anni in biancoblù, dal 1991 al 2007, e una marea di punti segnati: 6.551, per l’esattezza. Numeri che lo hanno reso il miglior marcatore di sempre nella storia di una squadra, quella sassarese, che ha difeso a suon di canestri negli anni in cui le luci della ribalta erano lontane e il vero scudetto consisteva nel riuscire a mantenere la A2.
Indiscutibilmente il miglior sardo con una palla a spicchi in mano fino all’avvento di Gigi Datome, Rotondo ha rinunciato alla tanto agognata A1 con Varese per inseguire il sogno di portare il grande basket nella sua Sassari. Sogno che si è interrotto bruscamente nel 2007, pochi anni prima che Vanuzzo e compagni riuscissero nella grande impresa. Unico rimpianto, questo, di una carriera che lo ha visto indossare la maglia della nazionale italiana e primeggiare per anni in LegaDue per media realizzativa.
La sua storica canotta numero 12, che probabilmente avrebbe meritato di essere issata sul soffitto del PalaSerradimigni, la veste ora Travis Diener, ma forse è proprio questo il modo migliore per ricordare a tutti chi, con grande orgoglio, ha seminato il terreno per la Dinamo versione Showtime che continua a far sognare un’isola intera.
Ai nostri microfoni coach Michelini ha dichiarato che quelli della vostra Dinamo erano tempi “eroici”. Sei d’accordo con questa definizione?
Certo, la realtà all’epoca era ben diversa, le squadre erano costruite senza un grande budget e la nostra promozione consisteva più che altro conquistare la permanenza in Serie A faticando partita dopo partita e minuto dopo minuto. Per quello che avevamo a disposizione mantenere la A2 era il massimo che si potesse fare, e per tutti noi erano dei grandissimi traguardi.
Se in quegli anni ti avessero detto che un giorno (nemmeno tanto lontano) la Dinamo sarebbe stata competitiva per lo scudetto, ci avresti creduto?
Assolutamente no! Ci speravo, era il mio più grande desiderio da sassarese oltre che da capitano di lungo corso della Dinamo. Però solo fino a sei-sette anni fa tutto questo sembrava impossibile. In seguito, per fortuna, le cose sono cambiate e ora a Sassari si può giocare per vincere, ma ai miei tempi ci accontentavamo di molto meno.
Hai accennato al budget: nei tuoi anni la Dinamo non poteva certo permettersi di ingaggiare giocatori come Travis Diener o Sani Becirovic, però capitava comunque di pescare bene all’estero. Quali sono i migliori stranieri con i quali hai giocato?
Difficile fare paragoni, perchè nel tempo sono cambiate le regole e anche i campionati. A mio avviso i tornei prima erano comunque molto competitivi, perchè il regolamento imponeva di avere solo uno o due stranieri, quindi i giocatori che che arrivavano da fuori erano quasi sempre molto forti. Io, personalmente, ho avuto la possibilità di giocare con diversi stranieri bravi, ma anche con altri decisamente meno forti. Se devo fare dei nomi, tra i migliori, direi Jonathan Haynes (a Sassari nel 1996/97 e nel 1998/99 con oltre 20 punti di media, ndr) col quale avevo un rapporto speciale anche fuori dal campo. Inoltre non posso non citare anche i vari Curcic, Thomas e Abram: tutti ragazzi dei quali conservo un bellissimo ricordo.
Ce ne è stato anche qualcuno col quale invece non ti sei proprio trovato?
Ovviamente sì, ma sarebbe antipatico fare dei nomi. Qualche americano un po’ indisponente mi è capitato di incontrarlo, così come qualche italiano, a dirla tutta. Però devo ammettere che sono state molte di più le volte nelle quali sono sono andato d’accordo con i miei compagni.
Per quanto riguarda gli allenatori? Quali sono stati quelli con i quali hai lavorato meglio? Alcuni tuoi scontri con Michelini sono rimasti celebri
Più che altro quando si è giovani e meno maturi le cose si vedono in maniera un diversa. Quando arrivò Michelini non eravamo abituati a lavorare con certe metodologie, e ci volle un pochino di tempo per trovare la sintonia giusta. Però del coach posso soltanto parlar bene, e devo ammettere che è stato uno degli allenatori che mi hanno fatto rendere meglio, sia negli anni alla Dinamo che quando ci siamo ritrovati più avanti a Porto Torres (stagione 2007/08, ndr). Nel corso della mia carriera tutti i suoi insegnamenti mi sono tornati utili e li ho apprezzati davvero tantissimo.
Diciamo che l’ultimo dei tuoi problemi in campo era quello di fare canestro: sia negli anni della Dinamo che in quelli successivi hai avuto delle medie realizzative davvero notevoli. Ti sei mai chiesto quanto avresti potuto segnare in un basket veloce e offensivo come quello di Sacchetti?
Chi lo sa, è stato un peccato non incontrarci negli anni in cui ero più in vista! Lui è un allenatore che ama il gioco in velocità, i realizzatori e lo spettacolo. Io in tutto questo ci andavo a nozze, quindi non escludo che Sacchetti sarebbe potuto essere uno dei miei allenatori preferiti!
Tra tutti i campi che hai girato nei tuoi sedici anni di Dinamo, qual è stato quello più difficile? Forse Cefalù nei playoff di B1 nel 2000?
Sicuramente i campi del sud, in particolare quelli siciliani e quelli campani, sono stati sempre molto caldi. A memoria posso sicuramente citare Cefalù, ma anche Trapani, Marsala, Avellino e Gragnano. Inoltre vorrei sfatare un luogo comune: anche nel nord Italia ci sono dei campi caldissimi, nei quali non è semplice giocare.
La Dinamo dei tuoi tempi, rispetto a quella attuale, aveva certamente un’impronta più sarda. Era un motivo di orgoglio in più?
Decisamente sì. Noi sardi abbiamo un’identità molto forte e siamo attaccati alla nostra terra, alla nostra città e di conseguenza anche alla maglia della Dinamo. In quegli anni riuscivamo a far giocare diversi giocatori locali: Dario Ziranu, Luca Angius, mio fratello Federico, poi Giordo, Zanetti, Losa e ne sto certamente dimenticando qualcuno. Ovviamente questo non poteva che essere un motivo di orgoglio in più per noi. Ecco, ciò che posso augurare alla Dinamo è di trovare al più presto qualche giocatore locale da aggiungere in squadra. Questa sarebbe la classica ciliegina sulla torta.
Rispetto ad allora però è una cosa molto più difficile da realizzare. Soprattutto a causa delle regole.
E’ vero, però dico: quando un giovane è bravo gioca comunque, a prescindere dalle regole e dall’età. Quando un ragazzo non è abbastanza bravo, invece, non deve giocare. Non ci sono regole su under o over che tengano.
Potrebbe essere Marco Spissu il futuro della Dinamo in questo senso?
Marco mi piace molto, spero davvero che riesca ad arrivare. E’ un ragazzo serio, ambizioso, talentuoso e con una grande cultura del lavoro. Ora gli consiglierei di fare un po’ di esperienza, perchè a livello senior non ne ha tanta. L’anno scorso ha fatto la DNC col Sant’Orsola e il precampionato con la Dinamo, quest’anno gli sarebbe senz’altro utile fare un campionato da protagonista a un livello leggermente più basso della Serie A. L’auspicio di tutti è ovviamente quello di vederlo giocare un giorno al PalaSerradimigni.
Rifaresti sempre la scelta di rifiutare il triennale con Varese, che ti scelse per sostituire Andrea Meneghin?
Io mi considero un tipo un po’ particolare, perchè ho sempre avuto il desiderio di fare il giocatore “in casa” partendo dai livelli più bassi fino ad arrivare a quelli più alti. In quegli anni con un’altra maglia non mi ci vedevo proprio: non c’entrano i soldi o la carriera. Poi le cose purtroppo non sono andate come mi sarebbe piaciuto, ma all’epoca credevo davvero nella mia filosofia e non ho nulla da rimproverarmi. La scelta di restare a Sassari la rifarei senza indugi.
Tanti anni di professionismo non ti hanno comunque impedito di studiare e di conseguire la laurea in giurisprudenza. Come hai fatto a conciliare il basket ad alto livello con i libri?
A dire il vero non è una cosa così difficile come sembra. Non mi ammazzavo certo di studio, però sono sempre andato bene a scuola e avevo il desiderio di conseguire un titolo importante. Studiavo nei ritagli di tempo, non era sicuramente semplice ma non esistono formule magiche: con la giusta dose di buona volontà si può fare tutto.
La tua storia con la Dinamo è stata talmente bella che avrebbe sicuramente meritato un finale diverso. A distanza di sei anni come giudichi quell’addio un po’ polemico dell’estate 2007?
A distanza di anni ormai l’ho digerita, ma non posso nascondere che a quei tempi non la presi bene. E’ un po’ il segreto di Pulcinella, del resto. Quell’episodio mi ha ricordato quanto lo sport sia bello e crudele allo stesso tempo, nel senso che tu pensi di aver ottenuto qualcosa di importante, ma in realtà non basta mai, devi sempre confermarti il giorno dopo. Mi è dispiaciuto lasciare la squadra perchè pensavo e speravo di finire la carriera a Sassari: il mio sogno sarebbe stato quello di finire la carriera in A1 con la squadra della mia città. D’altra parte però i matrimoni si fanno in due, la dirigenza (all’epoca la Dinamo era sotto la presidenza Mele, ndr) non la pensava così e io ci rimasi malissimo. Però, col senno di poi e a mente fredda capisci che in queste cose non c’è spazio per i sentimenti. E’ successo a tantissimi giocatori a tutti i livelli ed è capitato pure a me. Ma non posso nascondere che per me fu molto dura da accettare allora.
Quindi possiamo dirlo: l’unico vero rimpianto della tua carriera è stato quello di non aver accompagnato la Dinamo nel salto in A1.
Proprio così, è stato l’unico e solo rimpianto della di una carriera della quale sono comunque felice e orgoglioso, sia per quanto fatto a Sassari che altrove. L’unico, piccolo neo è stato appunto quello di non essere nato qualche anno dopo per riuscire a vivere gli anni gloriosi che la Dinamo sta attraversando ora. Ma ovviamente sono contento che la Serie A sia finalmente arrivata anche senza di me.
Potresti riprovarci come allenatore
Perchè no? Speriamo, nella vita non si sa mai. Sarà senz’altro un cammino più difficile, ma non escludo nulla.
Ti piacerebbe fare carriera come coach?
Per ora, a dire il vero, mi piace soprattutto lavorare coi bambini del minibasket, è una cosa che mi diverte moltissimo. Però non si può mai dire, magari un domani potrò anche salire di livello e allenare i professionisti. Non mi sento di escludere nulla.
A parte Marco Spissu, di cui abbiamo già parlato, ti è capitato di vedere all’opera qualche altro talento nelle giovanili della Dinamo?
Eccezion fatta per Jacob Samoggia, a Sassari non ci sono tantissimi nomi in questo momento. Noi del settore giovanile speriamo pian piano di poter aiutare la società e la squadra a preparare qualche ragazzo che un domani possa giocare ad altissimi livelli. Questo è il nostro compito oltre che la nostra più grande ambizione.
Parliamo di nazionale: tu hai vestito l’azzurro diverse volte, sia nelle giovanili che in quella maggiore. Contrariamente a oggi, a quell’epoca avere un sardo in nazionale era quasi un evento.
Sì, ai miei tempi fu una cosa molto particolare, perchè non c’era grande tradizione, sia a Sassari che nel resto della Sardegna. Fui chiamato tra l’altro in una nazionale che poi andò a vincere l’Europeo in Francia con mostri sacri del calibro di Abbio, Meneghin e Fucka. Soltanto il fatto di esser stato chiamato a due o tre raduni con l’Italia era un evento sensazionale, che mi rende tutt’ora molto orgoglioso. Sembrava quasi di stare in mezzo agli alieni! Dell’esperienza azzurra conservo comunque un grandissimo ricordo, perchè mi sono trovato a giocare con i miei idoli di gioventù, gente che per tanto tempo avevo visto soltanto in televisione.
Il panorama cestistico in Sardegna vive un momento dai due volti: da un lato ci sono tanti giovani che arrivano nel giro della nazionale, dall’altro, invece, per trovare una società alle spalle della Dinamo bisogna scendere fino alla Divisione Nazionale C. Che idea ti sei fatto del movimento sardo?
Il movimento è sicuramente in grande sofferenza, e per accorgersene basta dare un’occhiata ai vari campionati, dove ogni anno tante squadre non si iscrivono, falliscono, vengono ripescate e così via. A mio avviso si tratta di un effetto della crisi che viviamo a livello economico, e che inevitabilmente si riflette sul basket. Inoltre in Sardegna, dove il contesto è più difficile, paghiamo un prezzo ancora più alto rispetto agli altri.
A Datome cosa avresti consigliato? L’NBA subito oppure prima un passaggio intermedio, magari con una grande europea?
Non gli avrei consigliato nulla di particolare. Gigi ora è maturo, ha 26 anni e non è più il ragazzino che vedevo giocare a Olbia qualche anno fa. Ho una grande stima nei suoi confronti, ci conosciamo da tanto tempo e quando l’ho incontrato qualche giorno fa ad Alghero gli ho fatto l’in bocca al lupo per la nuova avventura. E’ un ragazzo estremamente intelligente e coi piedi per terra, e sono sicuro che se la caverà alla grande anche dall’altra parte dell’oceano. Se continuerà a migliorare dal punto di vista tecnico come ha fatto negli ultimi anni potrà diventare un ottimo specialista anche per il campionato americano. Di questo sono assolutamente convinto.
Quindi lo vedi soprattutto come un tiratore specializzato dall’arco
Direi di sì, almeno per il momento. Inizialmente dovrà guadagnarsi la fiducia di tutti, però credo che dalla panchina, o, chissà, magari anche dal quintetto, saprà subito dare un grande contributo ai Pistons.
Parliamo della Dinamo di oggi: la sconfitta contro Cantù in gara 7 è una ferita ancora aperta?
E’ stata una grandissima delusione per me, per la società e anche per i cinquemila tifosi che avevano gremito il PalaSerradimigni. La Dinamo è stata protagonista di un campionato straordinario e ci si aspettava che facesse più strada nei play off, questo è sicuro. Però purtroppo è mancato un pizzico di fortuna, e inoltre Cantù ha tirato fuori la partita perfetta. Non è una consolazione, ma secondo me quella gara 7 non l’ha persa la Dinamo, bensì l’ha vinta Cantù.
Quello appena passato poteva essere l’anno buono per cucire il tricolore sulla maglia?
Probabilmente sì, però non è andata così e ormai ha poco senso recriminare. La vittoria è frutto di tante componenti, non ultima la fortuna, e i play off sono da sempre un campionato a parte. C’è chi fa male tutto l’anno e magari arriva in finale, e chi invece fa grandi cose e poi esce al primo turno. Ormai questo è un capitolo chiuso e siamo già tutti proiettati verso la nuova stagione.
Secondo te è possibile vincere lo scudetto senza avere una spiccata dimensione interna, come nel basket di Sacchetti?
Il basket è fatto di tanti aspetti. Sacchetti predilige un tipo di gioco, si fida di certi giocatori, ha costruito una squadra molto forte con dei nomi importanti e io sono convinto che si possa soltanto migliorare. Certo, poi magari si incontrano delle squadre con grande organizzazione e magari si fatica, però non vedo perchè non potrebbe funzionare questo sistema di gioco. Inoltre dal mercato sono arrivati due lunghi importanti come Caleb Green e Linton Johnson, che assieme agli altri arrivi hanno reso la Dinamo una delle squadre più forti del lotto, se non la più forte.
Che idea ti sei fatto del ritorno di Travis Diener?
Naturalmente non posso che apprezzare che uno come lui abbia deciso di rimanere a Sassari. E’ normale che un giocatore della sua caratura possa aver pensato anche di misurarsi in altre realtà, però per una serie di motivi questo non è successo. L’importante è comunque aver recuperato un giocatore che ha fatto divertire i tifosi della Dinamoper tre anni e il suo ritorno ha messo il punto esclamativo su una squadra già molto forte.
Non pensi che potrebbero esserci problemi di convivenza con Marques Green, visto che la squadra era già stata disegnata attorno a lui?
Non lo escludo, visto che si tratta di due giocatori abituati a stare tanto sul campo. Però è anche vero che Sacchetti è il numero uno per capacità di gestire queste situazioni, anche dentro lo spogliatoio. Se Marques e Travis riusciranno a trovare una linea d’intesa, come sono sicuro che faranno visto che si tratta di due ragazzi molto intelligenti, saranno una coppia micidiale. Sono sicuro che per Meo sarà un divertimento e uno stimolo in più cercare di farli andare d’accordo in campo.
Aggiungeresti ancora qualcosa a questa Dinamo?
Direi di no, non dobbiamo mica fare il Dream Team! Però non è detto che in corso d’opera non si renda necessario qualche aggiustamento. Credo che la squadra sia già estremamente competitiva così, senza aggiungere nulla.
Il Banco edizione 2013/14 dove può arrivare? Si può ancora inseguire il sogno di arrivare fino in fondo?
Penso proprio di sì, la squadra è forte, l’obiettivo minimo dichiarato è quello di arrivare ai play off, quindi non vedo perchè non si possa migliorare. Le premesse ci sono tutte, poi vedremo cosa ci dirà il campo. E speriamo che stavolta ci dica bene.