Carlo Mazzone e Zdenek Zeman, così diversi così simili per amore e… caduta rossoblù

Carlo Mazzone e Zdenek Zeman, tecnici icone del calcio italiano

Carlo Mazzone e Zdenek Zeman, tecnici icone del calcio italiano

Cuffietta piegata in testa, giubbotto d’ordinanza coi colori sociali che è solito indossare anche in allenamento e scarpe da tennis consumate. Le mani son dietro la schiena, strette l’una all’altra, pronte a sbraitare per il primo passaggio sbagliato, ad esplodere dando seguito ad imprecazioni, a volte urlate, a volte a mezza voce, sempre in romanesco. Aplomb inglese che? Carlo Mazzone urla, vive la partita sulla sua pelle come un tifoso navigato, la sente. Simula passaggi, dirige la ciurma da dentro, mai da fuori: “Giocatela a tera ‘sta palla”. E’ romano e non lo nasconde. Del resto ha fatto della sua romanità un cavallo di battaglia.

Più che un allenatore, è un vecchio capitano di una nave al largo, col viso scavato dai ricordi di una vita nel rettangolo di gioco, dai palloni non entrati in rete e dalle vittorie conseguite all’ultimo secondo. Gli occhi conservano la stessa scintilla di vita degli inizi, capaci di capire come tira il vento, quando è giusto partire all’arrembaggio e quando è meglio protrarsi in acque tranquille. I suoi giocatori li conosce, sa cosa può tirarne fuori. Sa che annata sarà solo guardandoli in faccia durante la preparazione, riuscendo ad aver da loro sempre il meglio. “Se tu mi dai dei fagioli ti cucino al massimo una pasta ai fagioli. Se mi dai delle bistecche ti faccio una bella grigliata.” Filosofia spicciola, del basso come le sue origini.

Carlo Mazzone, in uno dei suoi proverbiali urli

Carlo Mazzone, in uno dei suoi proverbiali urli

Di famiglia borghese l’altro. Non è italiano. Giacca e cravatta, sigaretta in bocca e sguardo fisso in mezzo al campo. Non grida, non urla e non sbraita. Ogni tanto fa un mezzo segno con le mani e nulla più. I suoi giocatori dovrebbero sapere tutto dal principio, perché affaticarsi tanto? Non è un tipo da spasmi improvvisi, da gioie o rabbie convulse e incontrollate. Sta poco a bordo campo, preferisce l’ultimo posto in panchina. In disparte lo è sempre stato. Isolato, in un ambiente in cui dire la verità non è consigliato. Ambiente che prima fa applausi vigorosi, divertito, e poi ti ripudia voltandoti le spalle, dimenticandoti e mandandoti in esilio.

Zdenek Zeman preferisce parlare poco. Meglio stare zitti, a volte fa più rumore un silenzio, lo sa bene. Quando apre bocca va a finire sempre male. Le sue parole taglienti, sibilate senza cambio di tono, vengono riprese da tutti, passando di bocca in bocca, finendo con l’essere impresse su carta. Il simbolo del calcio pulito e della libertà di espressione. Un po’ naif, un po’ estremo, innovatore e artista della tattica, amante del bel gioco, capace di conservare lo stesso credo calcistico e la stessa etica del lavoro per tutto l’arco della sua carriera. I risultati non sempre sono arrivati, non importa, non è quello il fine del calcio. “Si deve cercare di mantenere la passione dei tifosi, cercare di giocare per i tifosi e dare spettacolo. Non basta vincere 1-0 per essere felici e contenti, se poi non hai dato niente alla gente. Penso che la gente debba tornare a casa contenta dopo aver visto qualcosa che l’abbia fatta divertire”.

Il primo estroverso, uno da osteria con la battuta sempre a portata di mano. Il suo calcio non è divertente come lui, ma è efficace e concreto. L’altro introverso, dall’umorismo sottile, affabile. Un tipo da caffè letterario disposto a bere in taverna con i reietti. Il suo calcio vige sotto il 4-3-3, suo marchio di fabbrica, ricco di tagli e verticalizzazioni con giocatori sempre in moto come pistoni. Uno capace di esultare a pugno chiuso contro un’intera curva, dopo aver pareggiato una partita al 90’ ed esser stato insultato e vessato. L’altro, solo in panchina, dopo aver conquistato una salvezza con l’ennesima squadra di provincia davanti a una città intera in festa.

Zdenek Zeman una quindicina di anni fa

Zdenek Zeman una quindicina di anni fa

Due personaggi che, a prima vista, sembrano non avere niente in comune. Le apparenze, come sempre, ingannano. Si, perché Carletto Mazzone e Zednek Zeman hanno molto che li avvicina e li lega. Lontani dai salotti del calcio, dal mondo comandato dal dio denaro, hanno preferito il calcio di periferia, quello di borgata, realtà nelle quali era possibile respirare, sulla pelle dei supporters, la passione vera, non condizionata da fattori esterni e nocivi. “Il mio scudetto l’ho vinto col Catanzaro quando in piena bufera calcio-scommesse ci siamo salvati nella maniera più pulita, una salvezza per meriti morali”. Parola di Mazzone. Lo scudetto Zeman lo vinse col Foggia dei primi anni ’90, portandolo nella massima serie e salvandolo per tre stagioni consecutive con un spettacolo mai visto prima, accendendo la miccia, e dando il via ai fuochi pirotecnici di Zemanlandia.

Son entrati a far parte dell’Eden giallorosso e romanista, al fianco predecessori illustri e vincenti come Alfred Shaffer e Nils Liedholm, pur non vincendo nulla, consacrati dal popolo. Il club capitolino segnò l’apice della loro carriera, il punto di non ritorno. Hanno dato il “La” alla carriera del giovane Totti. Uno lo fece esultare e l’altro lo consacrò. Son stati in grado di lanciare e valorizzare giovani, capaci di fare la storia del calcio italiano: Antonioni e Pirlo, Signori e Di Biagio solo per citarne alcuni.

Non son stati allenatori vincenti. Non hanno una stanza allestita da trofei e coppe da vantare. Non hanno medaglie da appendere e da mostrare sul petto gonfio di orgoglio e vanità. Hanno qualcosa che esula da ogni risultato sportivo: l’affetto incondizionato e la stima delle piazze nelle quali hanno predicato calcio. Testimonianza del fatto che i risultati non sono l’unica braccia per entrare nel cuore dei tifosi.

Mazzone dopo lo spareggio di Napoli, nel 1997

Mazzone dopo lo spareggio di Napoli, nel 1997

Più dell’essere state delle mosche bianche nel mondo omologato del calcio nostrano, c’è un fatto che li lega più di tutti: il Cagliari e il fantasma della retrocessione. Per Mazzone, il Cagliari, è stato croce e delizia. Lo salvò nel ’91-92, subentrato in corsa a Massimo Giacomini, con una cavalcata che ebbe del miracoloso. Lo rialzò, spingendolo in alto, nel momento in cui la sua fine sembrava segnata. Confermato nell’estate 1992, riuscì in un’altra impresa: lo portò in Europa dopo ventun anni, arrivando sesto a quattro punti dalla terza. Abbandonò il capoluogo isolano solo perché richiamato dalle sirene della sua Roma, lasciando la panchina in mano a Gigi Radice (una giornata e poi esonerato a favore di Bruno Giorgi).

Nella squadra capitolina, Mazzone, rimase per tre stagioni: dal ’93 al ’96. Ritornò a Cagliari nel ’97, ancora una volta a campionato inoltrato. A farne le spese fu l’uruguagio Gregorio Pèrez dimostratosi inadatto per la A. Come accadde nel ’92, la squadra sotto le sue direttive decollò e riuscì a regalarsi lo spareggio a Napoli contro il Piacenza di Bortolo Mutti, contro l’ultimo Milan targato Sacchi. La partita finì 3-1, il Cagliari andò in B dopo sette stagioni di permanenza in A. Tra le lacrime di Muzzi e Tovalieri, Mazzone disse addio alla squadra. Fu la prima e unica volta in cui il tecnico romano retrocedette nella serie cadetta. L’amore incondizionato della piazza non bastò per convincerlo a rimanere anche in Serie B, mentre Tovalieri sposava la Sampdoria e le diceva: “Se il mister torna sui suoi passi io straccio tutto e torno in Sardegna”. Non si concretizzò il tutto.

Zdenek Zeman ha trasformato una piazza depressa e sfiduciata in un calderone di entusiasmo, speranzosa di essere stupita anch’essa dalla bellezza di Zemanlandia. Il bel gioco si è visto a tratti, i risultati non sono arrivati quasi mai. Esonerato, è stato poi richiamato per un tentativo disperato: evitare la Serie B in cui il boemo non è mai caduto con una retrocessione. L’entusiasmo è ritornato, la sfortuna e le incongruenze di una stagione negativa non sono sparite. Per lui ora c’è la Lazio, compagine più in forma del campionato e prima “grande” della sua carriera. Dovrà dire se sia possibile rivivere il sogno o se è meglio chiudere gli occhi aspettando che la tempesta passi. La sua carriera variegata è costellata da vittorie rocambolesche, rovesci, promozioni, salvezze brillanti e pazzia, mancano le retrocessioni, proprio come il Mazzone di 18 anni fa…

Non si sa come andrà finire. Il boemo sarà come il primo Mazzone o come il secondo? Salverà il Cagliari, rendendolo poi grande, o precipiterà con essa per la sua prima volta? I tifosi cagliaritani fanno gli scongiuri, Mazzone no. Di recente, ha voluto dire la sua e, con la franchezza che lo contraddistingue, si è espresso in favore del boemo: “Credeteci tutti alla salvezza, tifosi e giocatori. Zeman è un grande professionista e un brav’uomo. Lasciatelo lavorare tranquillo, aiutatelo e vedrete.”

Fiorenzo Pala

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