La difficile storia della nuova guardia biancoblù

Scott Bamforth in maglia Bilbao
È il primo colpo della Dinamo Sassari per la stagione 2017/2018; Scott Bamforth guardia tiratrice di 1,88 m del New Mexico andrà molto probabilmente a sostituire quel Trevor Lacey già dato per partente dal presidente Stefano Sardara appena dopo la serie con Trento. L’esterno con passaporto kosovaro ha militato nella Weber State University, dove ha giocato insieme a un certo Damien Lilard, stella dei Portland Trailblazers, per poi migrare in Europa in terra iberica: nella Liga ACB ha vestito le maglie di Murcia, Siviglia e Bilbao, vivendo in Andalusia la sua migliore stagione.
Oltre all’indubbio talento e alle doti realizzative, Bamforth porta con sé una storia fatta di coraggio, tempra e abnegazione. Il piccolo Scott ha perso il padre a 12 anni per un arresto cardiaco durante il sonno, rimanendo solo con la madre. Il ragazzo cerca lavoro già a 14 anni, la sua prima paga serve per pagare affitto e bollette di una famiglia in piena difficoltà economica. “Non era la tipica vita dell’adolescente– ha dichiarato la nuova guardia biancoblù- lavoravo dalle 5 alle 13 e appena potevo andavo ad allenarmi con alcuni amici”. Pochi anni dopo e anche la madre di Bamforth morì per un’insufficienza epatica, ma nonostante le difficoltà la passione per il basket non morì: “A volte dormivo negli spalti in una tenda, per poi allenarmi appena spuntava il sole”. Riesce ad entrare per le sue doti nella Western Nebraska, per poi trasferirsi alla Weber State, dove conosce quella che sarà sua moglie.
Tutto sembra ormai lasciato alle spalle per Bamforth, ma la vita gli presenta un’altra difficoltà, l’ennesima: Kendra durante la gravidanza rischia la morte e del bambino per una preeclampsia. I medici riescono a salvare entrambi, compiendo un autentico miracolo con Kingtzon che aveva smesso di respirare: ora il piccolo ha 5 anni, ed è arrivato da pochi anni un fratellino. “Perdere mio padre da piccolo– dice in un’intervista alla TV spagnola- mi ha aiutato a superare qualsiasi cosa, non sarei il giocatore che sono adesso; il basket era l’unica cosa che mi rendesse felice”.
Matteo Porcu