SUPER SANTOS – Una sigaretta con Scopigno

Manlio Scopigno e Gigi Riva

Manlio Scopigno e Gigi Riva

Finita. “The end”. Lo dico pure in inglese, ora che va di moda, così non passerò per il solito anticonformista. Farina mi ha consegnato la lettera di esonero. Si è deciso a quanto pare. Questa volta sembra scritta meglio di quella che mi fece recapitare Goldoni quando allenavo il Bologna. Al fattorino, apparso di notte sull’uscio di casa risposi calmo: “Ci sono due errori di sintassi e un congiuntivo sbagliato”. Non dissi altro, mi infilai nel letto. Domani i giornalisti si sbizzarriranno con i titoli. Lo facciano, non li leggerò. Più che leggere mi piacerebbe scrivere. Non sarebbe male, ora potrei, a tempo perso. Se dovessi trovare qualcuno talmente pazzo da affidarmi una rubrica, la chiamerei “Senza Filtro” come le mie Nazionali. “Cameriere? Porti un’altra bottiglia, c’è da festeggiare stasera.” Sono alla seconda. Due bottiglie di champagne. Il 7 agosto di sei anni fa, in un ristorante di Asiago, durante il ritiro estivo, ne partirono decine. Andai a letto alle 4 del mattino sperando che i ragazzi non mi svegliassero prima di pranzo. ”Cameriere? Si, dico a lei ancora una volta: due bottiglie, non una.” Voglio dimenticare oltre a brindare. Bere significa anche questo no? Con queste due bottiglie voglio ricordare, per l’ultima volta, quel che è stato. Se volete farmi compagnia con una sigaretta, non vi dirò niente.




Sono nato in Friuli, cresciuto a Rieti. Sono affezionato a questa città. Son sempre ritornato, quando ho potuto, per riassaporare l’aria che mi ha fatto diventare uomo.Qui ho legato i primi lacci di una scarpetta, ho esordito, a 21 anni, in C, l’anno seguente in Serie B e ho pure trovato moglie: Angela, la letterata. Devo molto alle mie origini. Un giorno mi dedicheranno qualche strada o piazza, ne son sicuro. Non voglio pensare all’eventualità di uno stadio. Ho questo brutto presentimento, spero di sbagliarmi, sanno quanto sia contrario alle celebrazioni. Odio queste manifestazioni d’affetto postume, il buonismo tutto italiano di santificare i morti. Per tutta la vita hanno da ridire, poi fanno “ammenda” e finiscono con l’idealizzarti. Mi hanno sempre etichettato come un alieno nel mondo del calcio. Il motivo non l’ho ancora capito. Dico pane al pane e brocco al brocco e passo per un tipo bizzarro. In questo castello dove le fondamenta sono le bugie, gli alienati son altri, date retta a me. A Lello Bersani, conduttore della “Domenica Sportiva”, dopo avermi chiesto chi fossi e come potessi definirmi, risposi senza pensarci: “Uno che ha sonno”. Risero tutti. L’enigmatico, lo scettico, il sornione, lo squalificato, non sono niente di tutto ciò. Sono un uomo di calcio e di libri. Forse un “filosofo”, anzi un “mezzo filosofo”, non avendo mai terminato gli studi.

Manlio Scopigno in una delle poche foto a colori, sul prato verde

Manlio Scopigno in una delle poche foto a colori, sul prato verde

Tra tutti gli appellativi con i quali mi hanno ribattezzato, quest’ultimo è quello che non disdegno o rifiuto a priori. Divenni tale nei primi anni ‘60 con Nevio Furegon, corrispondente della Gazzetta di Vicenza. Nel ‘49 ero un calciatore-studente iscritto in Pedagogia alla Sapienza di Roma. Un’anomalia per il tempo, un’assoluta rarità. Volevo avere un paracadute, un’altra vita pronta, un’alternativa oltre al calcio. Dopo Rieti, passai alla Salernitana di Pietro Piselli e di Sentimenti II, il portiere che parò i rigori a Piola e Meazza. Avranno pensato di chiamarlo ad allenare dopo la partita persa contro il Lecce. In quell’occasione Di Nezio uscì dal campo infortunato e, con un uomo in meno, andai io in porta. Presi 4 gol. Cosa volevano? Ero un terzino. Non uno di quelli tutta corsa e muscoli, ero elegante, provavo a giocare il pallone senza buttarlo. Un giocatore meno irruento e più tattico. Come chi? Monzeglio mi paragonava a Maroso e mi volle a Napoli. Giocai al San Paolo tre stagioni prima di veder affogare il mio morale e la mia carriera nel Golfo. Avevo 26 anni, il mio futuro si spezzò come i miei legamenti in una partita contro il Como. Vincevamo 6-1, realizzai io il quinto gol, il primo in Seria A, poi un contrasto, il ginocchio si girò e calò il sipario. Un infortunio di quell’entità voleva dire smettere e dover fare altro. C’era l’università ad aspettarmi, una laurea da prendere. Non mi bastava, ero terrorizzato ed inquieto. Avevo perso il ritmo, il metodo di studio, riacquistarlo era difficile. Amavo ancora il calcio. Persi due anni a pensare cosa fosse più giusto per me. Dovevo scegliere un mestiere nel quale potessi coniugare le mie conoscenze sportive e pedagogiche. Allenare parve la soluzione migliore.

Dopo anni di gavetta nelle serie minori nella mia Rieti, a Todi ed Ortona, arrivò la chiamata del Lanerossi Vicenza. Due stagioni da vice del “Frate”Lerici, conosciuto nei banchi di Coverciano. Tre da allenatore vero in Serie A. Ottenni un sesto e un settimo posto, la panchina del Bologna nel ‘65. Non era una società qualsiasi quella del presidente Goldoni, succeduto a Dall’Ara morto d’infarto al telefono con Moratti. Nel ’63/’64 aveva vinto il suo settimo scudetto con Fulvio Bernardini. Fui scelto al suo posto, accettai e alla sesta giornata fui sollevato dall’incarico, arrivò il fattorino con la lettera di esonero. Ricordate? Ve lo dissi poco fa. Mi cacciò perché feci di tutto per essere cacciato. Odiavo le pressioni dall’alto, l’obbligo di stringere amicizie politiche e diventare un “Uomo senza qualità” come Ulrich, il protagonista del romanzo di Musil che sta sul mio comodino. Criticai un campaccio di patate dove giocammo in amichevole a Modigliana. Dovevo starmene mogio e in silenzio secondo Goldoni. Il suo amico, proprietario del complesso e famoso politico della Dc, non gradì il mio commento. Pensarono fossi comunista. Il derby perso contro il Modena non giocò a mio favore.




Rimasi un anno a spasso e finii la stagione successiva ai margini del calcio, in Sardegna. Andrea Arrica mi diede carta bianca e piena fiducia, mi bastava. Trovai un buon organico e un giovane talentuoso che non capii, all’inizio, perché non giocasse a Milano o Torino. Lo spostai dall’ala sinistra a centravanti. Lui doveva segnare, dovevano pensarci gli altri a correre sulla fascia e mettere palloni in mezzo. “Hud” come lo chiamavano i compagni di squadra, doveva solo essere seguito passo dopo passo e sopratutto capito. Spostai l’orario degli allenamenti: si correva solo di pomeriggio, la mattina Gigi dormiva e io ero l’ultimo dei mattinieri con le ore piccole fatte tra un mano di poker e un drink con gli amici. Cambiai metodologia, eliminai il ritiro e i rigidi regolamenti da caserma. Volevo responsabilizzarli, far capire loro che avevano piena libertà di gestirsi la vita come volevano, come degli adulti. Una sera ad Asiago entrai nella camera d’albergo dove si erano riuniti per giocare a carte e fumare. Compariva una bottiglia di grappa, feci finta di non vederla. Calò il gelo, pensavano ad una ramanzina e una multa in “stile Silvestri”, mio predecessore. Nella cappa di fumo riuscii a trovare una sedia, mi sedetti e dissi: ”Vi dispiace se fumo?”. Rimasero a bocca aperta. Filò tutto liscio prima che Riva regalasse la gamba alla Nazione in Portogallo-Italia. Finimmo sesti in classifica, risultato storico per il Cagliari. A me lasciò l’amaro in bocca, la qualificazione in Europa fu un buon dolcificante.

Con Nereo Rocco

Con Nereo Rocco

Eravamo la squadra simpatia, una novità nel panorama calcistico e probabilmente per queste ragioni fummo invitati in tournée negli Stati Uniti. Arrivammo terzi ma nello spogliatoio non tirava un’aria buona: i ragazzi protestavano per qualche promessa sui premi non mantenuta dalla dirigenza. Presi le loro difese, le cravatte dei piani alti storsero il naso. L’irreparabile avvenne una sera che fummo invitati a cena dal console dell’Ambasciata italiana a Chicago. Non avvenne niente di eclatante. Lasciate perdere i giornali. Cosa successe? Chiesi garbatamente, con qualche whisky di troppo in corpo, alla moglie dell’ambasciatore dove fosse la toilette e lei mi indicò la siepe in maniera scherzosa. E io andai in bagno. Un fotografo m’immortalò mentre urinavo in giardino. Finii su tutte le prime pagine delle maggiori testate il giorno dopo. Ritornato in Sardegna, il presidente Enrico Rocca volle una spiegazione. Che giustificazione dovevo dargli? Avevo capito il perché della chiamata “chiarificatrice” dopo essermi esposto con i ragazzi, alzai la cornetta e tagliai corto: “Si sbrighi, ho la minestra nel piatto e non vorrei farla freddare”. Lettera di licenziamento l’indomani recapita a casa. Aveva trovato un pretesto per allontanarmi, tra noi non era mai corso buon sangue. Dopo un anno mi ritrovai, nuovamente in strada, da cane sciolto con “Il Seminatore D’Oro” tra le mani. Eletto miglior tecnico d’Italia, ero inspiegabilmente senza panchina.

Mi contattò Moratti. Herrera non gli andava più a genio, diceva di preferire i filosofi ai maghi. Fui stipendiato da lui un anno per tenermi buono e fare in modo che non mi accasassi altrove. Punicelli prese il mio posto ma fallì piazzandosi nono e incassando il doppio dei gol rispetto alla stagione precedente. Efisio Corrias divenne il nuovo presidente dopo l’abdicazione di Rocca. Cambiò nuovamente tutto: mi richiamò, ritornai in Sardegna e firmai fino al ‘72 per quattro intere stagioni. Cosa avvenne in quegli anni? La voce potrebbe risultare rotta mentre parlo. Scusate, vi dispiace se esco un momento fuori? Una pausa di pochi minuti. Fumo una sigaretta e continuo il racconto.

Eccomi. Ho impiegato qualche momento in più perché ho deciso di farla in un vasetto di gerani. Non ridete, non c’era nessun ambasciatore a spiarmi. Non possono nemmeno cacciarmi: il foglio di licenziamento di Farina è già arrivato, è qua sopra il tavolo. Dove eravamo rimasti? Nella stagione ’68/’69 consigliai alla dirigenza di acquistare calciatori seguiti durante l’inattività. Arrivarono Brugnera e Albertosi dalla Fiorentina al posto di Rizzo, Zignoli come sostituto di Longoni, e Tomasini dal Brescia. Ad inizio campionato, in pochi avrebbero scommesso su di noi. Partimmo a razzo, marciavano col nostro passo solo il Milan di Rocco e la Fiorentina di Pesaola. A gennaio ci laureammo campioni d’inverno e da matricola diventammo, di colpo, una squadra di vertice. Rimanemmo davanti a tutti fino al 9 marzo 1969, prima di crollare all’Amsicora contro la Juventus. Alcuni sentenziarono che ci fossimo montati la testa. Fregnacce. Eravamo acerbi, giocavamo sbarazzini e divertiti, non capendo di aver le potenzialità per vincere il titolo. Accusammo un calo fisico e i toscani, più freschi di noi, ci scavalcarono mantenendo le distanze fino alla fine. A maggio arrivammo secondi davanti ai rossoneri vincitori della Coppa dei Campioni. Riva fu capocannoniere e i suoi 20 gol furono il pass per la Coppa delle Fiere. Niente amaro in bocca come due anni prima a causa del piazzamento. Nessun rimpianto ma solo certezze. Dovevo puntellare la squadra con due o tre giocatori ed era fatta.

Gigi Riva scopre la targa in memoria dello Scudetto

Gigi Riva scopre la targa in memoria dello Scudetto

Chi comprare? Con il passaggio di Boninsegna all’Inter arrivarono Poli, Domenghini, Gori e 250 milioni. Mancin abbandonò Pesaola accasandosi da noi insieme a Tampucci dall’Olbia, terzo di Albertosi e Reginato, e Nastasio dall’Atalanta. Quest’ultimo doveva giocare titolare prima dell’arrivo dei nerazzurri. Lo buttai nella mischia solo cinque volte in tutto il campionato. Era un’ala rapida e veloce nello stretto ma aveva il difetto di crossare in ritardo. Feci appendere per lui un cartello sulla linea di fondo con scritto: “qui finisce il campo”. Doveva capirlo in qualche modo. Ero soddisfatto, non mancava nessun tassello per la squadra che avevo in mente. Dalla prima giornata la Fiorentina risultò la nostra principale antagonista, alla quinta di campionato, era già scontro diretto. Decise Riva su rigore. Il 12 ottobre ci piazzammo davanti a tutti con le convinzioni mancate la precedente stagione e la cattiveria dei vincenti acquisita partita dopo partita.Il 9 novembre arrivammo ad avere quattro lunghezze sulle inseguitrici, la domenica dopo tre. Distacco che fu costante per gran parte della stagione. Non mi scomposi nemmeno quando dietro di noi comparve la Juventus di rincorsa a -1, il 14 febbraio 1970. “Se non cambiano le regole in corsa, vince sempre chi ha un punto in più”, dicevo tra me e me. Perdemmo a Milano contro l’Inter per 1-0, gol dell’ex di “Boninba”. Vai a capirlo il calcio. Da quel momento iniziò un thriller trasformatosi in horror a Torino, nel feudo degli Agnelli. Arbitrava Lo Bello. Mi son dimenticato di dirvi che ero stato squalificato 5 mesi dal Giudice Sportivo per avere detto “frasi ingiuriose ai danni del guardalinee Cicconetti” nella gara contro il Palermo. Preferisco non commentare. Annullarono un gol a Riva, fischiando un fuorigioco di Martiradonna accasciato sulla bandierina. Uno scandalo, non aggiungo altro. Rimasi fino all’ultima partita dietro le recinzioni, le mie direttive le dava Conti, il mio vice.

Ritorniamo al “Comunale”. L’ambiante era carico e in fibrillazione. Nessuna delle due squadre doveva perdere. Un’eventuale vittoria ci avrebbe portati a +4, una sconfitta alla condivisione del primato. Apre le marcature Niccolai, con un bellissimo gol. Uno spettacolo, la perfezione. Si superò solo quando dribblò tutta la difesa prima di concludere alle spalle del suo portiere. Un autogol di pregevole fattura. Pensavate avesse fatto gol ad Anzolin? Conoscete poco Comunardo. In quella stagione subimmo 11 gol, uno suo. Rimediò Gigi prima dell’intervallo. Nella ripresa successe di tutto, Lo Bello salì su un piedistallo e, non accontentandosi di essere il direttore di gara,divenne regista e primo attore. Se non mi avessero squalificato contro il Palermo, l’avrebbero fatto sicuramente contro la Juventus. Assegnò un rigore chiaramente inventato, Albertosi lo parò. Niente da fare, era da ribattere. Il motivo? Diceva che si era mosso in anticipo. Il secondo lo calciò Anastasi, al posto di Helmut Haller, e il pallone finì in rete. 2-1 e un anno in fumo per colpa delle bizze di un arbitro egocentrico. Cera era fuori controllo. Piero era l’allenatore in campo, l’esempio da seguire. Prima dell’infortunio di Tomasini era un mediano intelligente, complice l’emergenza lo arretrai e ne feci un libero. Il primo libero di costruzione del calcio italiano. In quella partita rischiai di perdere metà squadra per proteste. Mi dissero che Riva ringhiò a muso duro davanti a lui, chiedendogli cosa dovesse fare per farsi buttare fuori. “Pensa a giocare e fatti dare il pallone dentro l’area” sibilò Lo Bello. Detto e fatto: un lancio lungo, un contatto in mezzo ed è di nuovo rigore. 2-2 al 82’. Lo Bello strizzò l’occhio a Riva ma lui non si scompose: “Se l’avessi sbagliato?” “L’avrei fatto ripetere”.

Mancavano sei giornate al termine, dipendeva tutto da loro. La gara decisiva risultò la terzultima contro il Bari. L’Amsicora era gremito, non l’avevo mai visto così pieno. Ero uno spettatore, un tifoso come gli altri per via della squalifica. Ero teso, provavo a sdrammatizzare, non ci riuscivo, m’innervosivo, fumavo, la spegnevo e poi ne accendevo un’altra. Il calcio d’inizio, sembravano sicuri, volevano vincere, mi tranquillizzai. Riva aprì le marcature in acrobazia, Gori replicò allo scadere. 2-0 e Campioni D’Italia! Io, Manlio Scopigno, campione d’Italia. Dicono che all’apice della felicità, come all’apice della tristezza, la mente ricordi tutte i momenti importanti nel corso della vita. Foto che scorrono veloci in un album, polaroid con date e nomi di città. Io, quello inconcludente, in crisi per due carriere andate in fumo, per non sapere cosa fare nella vita, ho vinto. Salito sul grandino più alto con una squadra di provincia, battendo le squadre blasonate e prepotenti del Nord. La prima del Meridione a farsi beffe dei potenti con un urlo di vendetta che ancora non cessa di gridare. Mi commuovo ancora.
Termino col racconto, voglio stare solo. Riva tornò dal Mondiale in Messico osannato da tutti. Non si montò la testa e rimase a Cagliari. Pensavo di dire la mia in Coppa dei Campioni, di rivincere lo Scudetto ma tutto scomparì un’altra volta, lo scenario si abbassò. La mia carriera da allenatore, come quella da calciatore, terminò con un altro infortunio. La gamba non era mia, era di Riva. Si sacrificò, per la seconda volta, per la Patria. Un macellaio austriaco ruppe l’ingranaggio principale del mio giocattolo e il Cagliari ritornò ad essere squadra da metà classifica. Il canto del cigno nel ‘71/’72, con un onesto quarto posto e nient’altro. Passai alla Roma nel ‘74. Fui sollevato dall’incarico, come a Bologna, dopo sei giornate. Lanciai un giocatore particolare nel suo modo di porsi, introverso e schivo: Agostino Di Bartolomei. Ne sentirete parlare. Vicenza era stato inizio ed è stata la fine.
Ecco la lettera di Farina. Il racconto è finito. E’ giusto smettere, non voglio diventare caricatura di me stesso, marionetta in mano ai burattinai che recita un ruolo non suo. Sarò radicale e chiuderò con alcool e sigarette, volterò pagina col passato. Prima concedetemi, per l’ultima volta, di ritornare in quel famoso spogliatoio, non in campo.“Reginato? Non farmi gli occhi dolci, ti volevo dire che anche questa domenica sarai il dodicesimo. Contento? Albertosi tra i pali, Martiradonna terzino destro. Mario tu con quel nome non andrai mai in Nazionale. Ti saresti dovuto chiamare Martin e il posto da titolare non te l’avrebbe levato nessuno. Zignoli alla sinistra, rimani in marcatura, non salire troppo. Cera dovrei darle del lei? Lei è l’allenatore in campo, son costretto a farlo. Si ricordi di guidare i ragazzi e naturalmente di svolgere le sue mansioni da mediano nel migliore dei modi. Tomasini non ho niente da dirti, sai già tutto. Niccolai come va oggi con il fiuto del gol? Doppietta? Stai in campana Albertosi, lo vedo in forma. Domenghini dimmi ancora quanto può valere lo scudetto vinto a Cagliari. Uno dei nostri equivale a 5 del Milan come sempre? Lo so che lo dici per renderti importante. Gori ruota attorno a Gigi, devi creare gli spazi. Nenè segui l’azione e inventa qualcosa. Sei l’unico brasiliano della squadra. “Riccio” Greatti sei il più anziano della squadra con Cera, il centrocampo è nelle vostre mani. Ho finito ragazzi. Manca l’ultimo. Gigi? Ti posso solo dire una cosa: ti voglio bene.”

“Cameriere? Si, dico a lei. Porti via l’ultima bottiglia, qualche ricordo è giusto conservarlo.”

Fiorenzo Pala

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