Quando mi sono innamorato

La parabola ascendete del “Giaguaro” Federico Melchiorri

Ha appena pareggiato Bruno Fernandes, all’86’, in una partita che il Cagliari aveva ormai messo in cassaforte. Il silenzio dello stadio interrotto solo dalle imprecazioni di Rastelli, gentilmente accompagnato all’uscita dall’arbitro Gavillucci. Dubbi e paure ricomparsi di colpo in quella che stava per diventare a tutti gli effetti una serata di festa.

Federico Melchiorri

Federico Melchiorri

Poi quel lancio quasi distratto di Tachtsidis e la partenza di Melchiorri. Viviano è in netto vantaggio e il marchigiano sa bene di non poter arrivare sulla palla, così che la sua corsa si trasforma in quello che per noi comuni mortali è il jogging del lunedì mattina, seguente a un weekend eccessivamente alcolico: semplice espulsione di tossine.

C’è un’incontrollabile voglia di nuova vita dietro quel veloce e ostinato procedere, dall’angioma cavernoso che tutti conosciamo a una carriera che stava per spegnersi tra le birre degli amici e qualche partita a carte, al suono crudele di frasi del tipo “conoscevo uno che poteva diventare forte…” La speranza che non hai mai perso e che gli è stata fatale, ancora una volta, quando il portiere avversario ha lisciato l’anticipo lasciandogli una rete solo da insaccare. Il gol più facile della sua carriera è anche il più importante, dieci anni dopo il suo primo, fulmineo, esordio in Serie A con la maglia del Siena. Ci sono voluti almeno due secondi prima che Melchiorri si lanciasse nell’esultanza vibrante di passione, istanti interlocutori lunghi un’eternità, dove la sua mente ha provato, chissà se stavolta con successo, a cancellare definitivamente il doloroso passato.




Mi sono innamorato di Federico Melchiorri in un Cagliari-Avellino di appena un anno fa e, sia ringraziato il cielo, la cotta non ha mai avuto intenzione di calare. Voglio pensare sia stato un Dio sconosciuto, o più semplicemente il papà Enrico, quello che ha convinto il “Giaguaro” a ripensarci quando, appena ventitreenne, aveva prematuramente deciso di appendere gli scarpini al chiodo. E così, dalla parabola del figliol prodigo che torna al Tolentino, squadra che gli ha dato i natali da fresco pre-adolescente, fino all’approdo in Serie B con la maglia del Padova, passando da un’esperienza con la Maceratese. Poi il Pescara e la storia recente in riva al Golfo degli Angeli.

In Sardegna ha mosso i primi passi in punta di piedi, con ossequioso e riservato silenzio, come tanto piace agli abitanti di una Terra da sempre diffidente e controversa. Non so quale scintilla fece innamorare la Cagliari calcistica delle sue falcate leggiadre e così dannatamente simili a quelle di un tizio che qualche anno fa indossava la maglia numero 11, ma da un anno a questa parte è stato lui il giocatore che più di tutti ha conquistato la tifoseria. Quel mal di pancia così umano seguente al boato del “Sant’Elia” non è stato altro che un inconsapevole modo di screditarsi verso un popolo di cui può già sentirsi figlio.

La dedica a Melchiorri in quel di Asseminello

La dedica a Melchiorri in quel di Asseminello

Proviene da un campionato dove è reduce da 8 reti e un brutto infortunio al crociato, ne ha un altro di fronte in cui potrà rivelarsi la sorpresa della stagione. Lo farà per Paolo, Enrico e il giovane Andrea, un ragazzo di appena sette anni che ho avuto la fortuna di conoscere a Pejo. Il padre tifa la Juventus, lui è di Verona ma è al mio fianco sull’uscio dei cancelli di Celledizzo e indossa la maglia del Cagliari europeo formato 1993/94. “Perché tifi Cagliari?” Gli chiesi, “perché ho fatto una promessa a mio nonno sardo prima che morisse“, mi rispose lui. Ai più sensibili ascoltatori della nostra conversazione si inumidirono gli occhi, io rimasi lucido finché non mi disse il nome del suo giocatore preferito: “Federico Melchiorri“, dichiarò con tono fiero.

Quando hai sette anni i tuoi idoli sono gli eroi stereotipati amati da tutti, i Messi e i Ronaldo di turno, non un malandato attaccante marchigiano, con un sorriso triste e un’eleganza raffinata di difficile ripetibilità. “Quando gioca ci mette l’anima“, ribadì quel maledetto bambino in grado di farmi sentire minuscolo, nonostante i buoni 50 centimetri che ci separavano. Mai mi sono sentito così piccolo, almeno fino alle 23 di ieri sera. Quando, in lacrime davanti a uno schermo luminoso, ho pensato ad Andrea, distante qualche migliaio di chilometri da me, anche lui estasiato dall’ (ri)esordio trionfale del nostro idolo d’infanzia. Che è tornato in Serie A, e lo ha fatto per stupire.

Oliviero Addis 






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