Angelo Sormani: “Nenè puro come l’acqua. Il calcio non è un ufficio di collocamento”

Nenè (al centro) con Sormani (primo da sinistra) e altre stelle brasiliane

Nenè (al centro) con Sormani (primo da sinistra) e altre stelle brasiliane

Ci sono persone destinate a correre insieme, unite da uno strano filo che intreccia le loro vite e le conduce verso bivi comuni, dettando il ritmo dei loro passi e delle loro scelte. Queste persone, per caso, s’incontrano e si perdono nel gioco del mondo, andando avanti spedite alla conquista di nuove tappe. Capita che qualcuno di loro si fermi e, voltandosi indietro, si accorga delle orme lasciate dall’altro al suo passaggio. In quel momento il passato viene visto con altri occhi: si capisce che il viaggio fatto non era un cammino in solitaria ma un comune percorso intrapreso con scarpini diversi, la stessa storia scritta da due diverse mani.

Quest’intervista racconta la corsa di un bambino scomparso pochi giorni fa, con la voce di un ragazzo, tre anni più grande di quel bambino, che ha dato i calci ad un pallone partendo nella sua stessa piazza, camminando su un sentiero parallelo per tutta una carriera. Questa è la storia di due giovani partiti dal basso, arrivati in alto vicino ad un Re, diventati uomini in terra straniera. E’ la storia di due brasiliani che hanno portato al successo due diverse squadre e che racchiudono, nelle loro vite, mezzo secolo di calcio.

Angelo Benedicto Sormani, sabato mattina alle prime luci dell’alba è venuto a mancare il suo amico e connazionale, Claudio Olinto de Carvalho, detto Nené. Come ha reagito alla notizia del suo decesso? Era rimasto in contatto con lui questi ultimi anni?

No, non sono più riuscito ad entrare in contatto con lui. Gli avevo inviato una fotografia ultimamente, ma non ho mai avuto una risposta. Ero a conoscenza della sua malattia e delle sue condizioni di salute. La sua morte mi ha amareggiato, l’ho sempre visto come un eterno fanciullo, una persona sincera, pura e cristallino come l’acqua che sgorga dalla fonte. Parafrasando Riva: “Uno con cui non si poteva litigare”. In poche parole: una persona eccezionale. La bontà di fondo che lo ha contraddistinto è stato un tratto peculiare che ogni persona entrata in contatto con lui ha avuto modo di scorgere.

Le vostre vite e carriere sono intrecciate e, per alcuni versi, possono definirsi simili. Quali sono i ricordi del Nené appena ventenne e di quel Santos destinato ad entrare negli annali?

Nené era del posto, mentre io son cresciuto a Jaù (San Paolo) e fui acquistato dal Santos successivamente. Sono nato nel ’39 mentre lui era del ’42. Per quei tempi la differenza di età era rilevante. L’ho conosciuto l’anno del suo passaggio in prima squadra, nel 1961. Entrammo in confidenza senza problemi, era difficile non fare amicizia con lui. Ricordo tante risate in compagnia, gli scherzi e i viaggi alla scoperta del Sudamerica. Abbiamo avuto, oltretutto, gli stessi problemi d’inserimento nella formazione titolare, avendo davanti a noi due attaccanti campioni del mondo e 3-4 giocatori che erano nel giro della Nazionale. Farsi strada e trovare uno spazio in mezzo a loro fu estremamente complicato. Noi che eravamo gli ultimi arrivati, potevamo giocare bene ed essere i migliori in campo ma la domenica successiva dovevi inevitabilmente cedere il posto ai titolari. Ricordo che Claudio si legò molto a Coutinho, con cui aveva fatto le giovanili. Erano molto affiatati nonché i più piccoli del gruppo.




Lei arrivò in Italia a soli 21 anni, voluto fortemente al Mantova da Edmondo Fabbri. Mentre veniva ribattezzato il “Pelé bianco”, passando poi alla Roma per la cifra record di 500 milioni (cui si aggiunsero i cartellini dei calciatori Jonsson, Salvori e Schnellinger), Nenè fu acquistato dalla Juventus.

Abbiamo fatto due percorsi diversi in Italia: lui approdò, da subito, in un club titolato, io ho dovuto fare gavetta in una cosiddetta ‘piccola’. A Mantova fui accolto benissimo, i tifosi erano entusiasti e in due stagioni, grazie al supporto della piazza calda, ho avuto la possibilità di dimostrare le mie capacità. L’esordio nel campionato italiano andò molto bene. Nenè mi chiamava “alemão” (tedesco) perché ero l’unico bianco del nostro gruppo di amici brasiliani. Eravamo affiatati fuori dal campo, giovani e spensierati. Eravamo consapevoli di avere un’enorme fortuna tra le mani, ovvero la possibilità di viaggiare per il mondo in cui farlo era molto difficile.

La copertina del libro su Sormani

La copertina della biografia di Sormani

Non avvertiva la famosa saudade?

Io son stato facilitato, essendomi sposato due mesi prima del trasferimento. La mia non è stata una vera saudade, mi sono integrato subito. I miei nonni poi erano dei veri italiani (toscani quelli paterni, veneti i materni). La domenica a Jaù era una festa: c’era la pasta fatta in casa, le gare tra mia zia e mia madre che entravano in competizione per fare i tortellini e il ragù. Posso dire di essere un vero italiano. Con Nené e gli altri brasiliani, era difficile comunicare, non come ora. Per parlare con i nostri parenti impiegavamo settimane o mesi per via del telefono via cavo. Spesso non si riusciva a prendere la linea, si doveva chiamare un centralino e aspettare ore poiché sempre occupato. Era il periodo d’oro del calcio italiano quando gli stranieri non erano tanti come ora. Per precisare: non eravamo definiti in quanto stranieri ma come ”provenienti da federazioni estere”. La parola straniero non esisteva nella dicitura del calcio italiano. Siamo stati degli apripista o meglio degli ambasciatori del calcio brasiliano in Italia. La nostra venuta in Italia è stata importante per le generazioni future.

Cagliari Campione ScudettoA metà degli anni ’60 le vostre vite cambiarono: lei trovò la sua terra promessa a Milano, Nenè nel Golfo degli Angeli. Qual è il ricordo che conserva del Cagliari affrontato nel quinquennio in maglia rossonera?

Il Cagliari faceva parte dei club periferici, tagliato fuori dallo strapotere dei colossi del Nord,  dal triangolo dove giravano i grossi capitali formato da Milano, Genova e Torino. Quel gruppo ero riuscito a realizzare in un’impresa che ha dell’incredibile. Partito a fari spenti si è imposto nel tempo e ha reso reale un sogno grazie all’entusiasmo di tutto il popolo sardo, guidato da quel condottiero e vero trascinatore che è stato Gigi Riva. Lui era un vero talento, capace di cambiare da solo l’esito di una partita. Oggi il singolo non può fare la differenza, ha bisogno del supporto dei compagni e di essere continuamente assistito dalla squadra.

Il tramonto della sua carriera da calciatore coincide con gli ultimi anni in panchina di un’altra leggenda del Cagliari dello scudetto: Manlio Scopigno, suo allenatore a Vicenza.

Scopigno l’ho conosciuto quando stavo per smettere di giocare nel ’76. Lui era come Nené: un uomo speciale. Aveva un modo di allenare tutto suo, molto particolare. Il Lanerossi però non era il suo Cagliari e non disponeva di un organico all’altezza del suo progetto calcistico. La stagione fu disastrosa, Scopigno fu esonerato da Farina e smise di insegnare filosofia nei campi di calcio. Un vero peccato.

Nené appese gli scarpini al chiodo nel 1976, lo stesso anno del suo addio e come lei decise di predicare calcio partendo dalle giovanili.

Si è vero, tuttavia non ci siamo mai incrociati. Io ho iniziato nel settore giovanile del Napoli animato dall’idea di diventare un allenatore di Serie A. Son partito con umiltà dal basso, volenteroso di studiare per arrivare in alto. Non avevo messo in conto la possibilità d’innamorarmi così tanto di quella categoria di ragazzi chiamata Allievi. Mi piaceva insegnare loro la tecnica, le basi, buttandomi nella mischia. Son sempre stato un allenatore di vecchio stampo, mi son sempre sporcato le mani in campo. Feci il grande salto nel calcio dei grandi trasferendomi a Roma nella stagione 1985-86 come vice di Sven-Göran Eriksson. Son stato due stagioni a Catania senza essere esonerato in serie C ma quel mondo non faceva per me. Ritornai sui miei passi, in mezzo ai ragazzi delle giovanili che ho continuato ad allenare fino a poco tempo fa, prima di sottopormi ad un intervento alla colonna vertebrale che ha limitato le mie capacità motorie.

Sormani in maglia milanista

Sormani in maglia milanista

Facciamo un salto in avanti e parliamo del presente: come vede il suo Milan e il Cagliari di questa stagione?

Il Cagliari è una squadra che, per il momento, non ha ambizioni per arrivare in alto ma dispone di un buon organico, il Milan degli ultimi anni non investe come dovrebbe per ritornare grande. L’allenatore può essere bravo, i giocatori si possono impegnare ma tutto ciò non basta per eccellere a grandi livelli. Deve esserci un chiaro progetto. Il blasone del calcio italiano non è più quello di un tempo: prima si compravano i grandi giocatori, ora si vendono. Questo paese è diventato la seconda o terza scelta per i grandi campioni, preferiscono andare da un’altra parte.

A Luglio è ritornato in Sardegna ospite del Festival Sulla Terra Leggeri. Che rapporto ha con l’isola?

Amo questa terra. Son venuto fino al 1985, per 8-9 anni ho lavorato, ogni estate, con i ragazzi nella scuola calcio insieme a Mario Corso, concedendomi anche una breve vacanza. Ho soggiornato a Stintino, un posto meraviglioso che sta perdendo la sua selvaggia bellezza. Il cemento e l’edilizia stanno inghiottendo la natura.

Siamo alla conclusione. La sua biografia scritta a quattro mani con la giornalista Martina Bonichi,  s’intitola “Io sono il Pallone” (UltraSport, 2015). A fine intervista mi sembra fuori luogo chiedere il perché del titolo.

(Ride) Ho scritto questo libro per lasciare un ricordo ai posteri e ai miei nipoti. Non ho voluto ricordare il passato cadendo nel tranello di glorificarmi. Mi è piaciuta l’idea di raccontare una storia, quasi una favola, di un semplice ragazzo arrivato lontano inseguendo un pallone, divenuto parte di lui. Ho parlato del Brasile e dei brasiliani, della tournée con la maglia del Santos in Europa, degli incontri che hanno caratterizzato la mia vita, come quelli con Fabbri e Pelé, gli aneddoti di un tempo lontano che possono essere utili per le generazioni future. E’ un libro che serve a riaccendere una sana passione nei ragazzi e una guida per tutti i quei genitori che, purtroppo, son convinti che questo sport sia un ufficio di collocamento. Il calcio deve essere visto come un’opportunità, non come un investimento. Noto le false illusioni, ho paura di esse. 850 mila ragazzi giocano a calcio fra i 14 e i 18 anni,  e constatando questo mi chiedo: quanti di loro andranno in Serie A? Il mio libro parla della bellezza del calcio, della gioia di tirare un calcio ad un pallone, quella vera e genuina, la stessa che ha conservato negli occhi Nené, per tutta la vita.

Fiorenzo Pala

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