Agosto 2015, stadio “Bruno Fois” di Pattada, la Torres era in pieno ritiro estivo. Oscar Brevi dava le direttive ad un manipolo di giovani scommesse e veterani prossimi a svestire il rossoblù. Si respirava un’aria asfissiante d’incertezza, un’attesa che logorava animi impazienti di conoscere l’esito del processo “Dirty Soccer” che avrebbe decretato la sorte del club turritano. Grazia o mannaia? Il boia non sembrava magnanimo e compassionevole. Si temeva il peggio: la Serie D era dietro l’angolo. Non trapelavano dichiarazioni, emergeva solo il rombo di un silenzio assordante rotto da un fischietto e dalle urla grintose, in mezzo al campo, dell’allenatore meneghino.
Una delle note positive nei mesi dello smarrimento son stati i tifosi e la loro passione viscerale. Mai domi, nonostante il vento delle sciagure avesse ripreso a spirare rigonfiando di paure il futuro della società sull’orlo del peggiore dei precipizi, lasciata in balia degli eventi da un presidente desaparecido. Sempre presenti e vicini alla squadra, a testa alta, sprezzanti con un occhio semichiuso sul presente e un altro commosso nel ricordare un passato di aneddoti e racconti che il tempo, con la sua patina, ha fatto diventare vere e proprie leggende popolari.
In occasione della prima amichevole stagionale contro una rappresentativa locale, mi trovai, nell’intervallo, vicino ad un tifoso brizzolato sulla sessantina. Vedendomi con un quaderno tra le mani, si voltò verso di me incuriosito: “Scrivi per un giornale?”. Anuii. “Son curioso di leggere cosa dirai della partita di oggi. Non son male questi nuovi ragazzi. Come si chiama il trequartista proveniente dal Napoli?”. “Gaetano” risposi. “E’ un ottimo acquisto, mancano però uomini come Pinna, Udassi e Karasavvidis. Con loro era tutta un’altra musica. Giocatori come il greco passano una volta ogni 70 anni. Sono eventi rari, come una cometa. Non mi sto ricordando. Di..”. “Halley..” glissai. “Si, proprio quella. Conosci la storia di Karasavvidis?” disse sgranando gli occhi indagatori, cercando una cenno per farlo continuare. “Ho già sentito il nome, non so altro.” fui preso in contropiede. “Theofilos Karasavvidis” replicò repentino. Guardò l’orologio e aggiunse: “Abbiamo 10 minuti prima dell’inizio del secondo tempo. Se hai tempo da perdere e voglia di ascoltare te la racconterò..”.
Volava altissimo in aria un pallone, ruotava a pieni giri impennandosi nel cielo primaverile di una domenica uggiosa. Saliva sopra le teste dei ventidue in campo, sopra le panchine, i cappelli e i tetti sferzati dal sole di una Sassari radiosa, racchiusa nel catino bollente dell’Acquedotto. Quel pallone raggiunse il suo picco lasciando un’ombra sulla testa di un giocatore greco, ruotando a pieni giri fuori dal tempo. Rimase sospeso in una bolla, toccò il suo picco e cadde pochi metri da lui, due rimbalzi e si arrestò. Theofilos Karasavvidis lo prese tra le mani non sapendo che quel pezzo di cuoio, quel pomeriggio, sarebbe stato metafora della parabola discendente della sua cometa, l’inizio della fine, non solo della sua epopea in maglia rossoblù, ma anche della sua intera carriera. Dicono che una volta arrivati in cima ad una montagna si possa solo scendere verso il baratro, inesorabilmente e senza poter porre freno ad una caduta vertiginosa. Dicono che la vita sia fatta di ultime volte inanellate tra loro, perle perse di una collana intrecciata coi fili di ricordi sbiaditi.
Già, le ultime volte. Ti sei mai chiesto quando è stata la tua? Non si parla solo di calcio, allarga il tuo campo visivo: chiediti quando è stato il momento nel quale, in questi anni, hai provato una determinata sensazione che non hai provato più, hai fatto qualcosa chiudendo le porte all’eventualità di replicare. Vedo che hai capito dove voglio arrivare. Ognuno ha il suo punto di non ritorno. Per Theo è stato il 7 maggio del 2000, data dell’ultima volta nella quale uno stadio rischiarò con la luce del suo talento: un fuoco d’artificio durato un anno, spentosi di colpo, senza preavviso. Ogni spettatore, quel pomeriggio contro la Vis Pesaro, capì che quell’enigmatico greco difficilmente sarebbe rimasto in rossoblù. L’ultimo gol aveva il sapore dell’addio.
La storia d’amore tra Theo e la Torres era nata nell’estate del ‘99: l’Italbasket di Meneghin si laureava campione agli europei di Parigi, il Belpaese assisteva all’ultima eclissi del millennio in spiagge animate da ritmi caraibici e balli latinoamericani. Una 50 special bolognese sfrecciava spensierata per le strade e nelle radio. La Torres stava cambiato pelle: Gianni Marrosu, presidente dal 1996, cercava imprenditori in grado di rilevare la società dopo stagione altalenanti, liti di spogliatoi e continui piagnistei. Spirò un’aria nuova e rasserenatrice dopo la sua abdicazione, che asciugò lacrime amare, fece svanire la depressione imperante e creò i presupposti per voltare pagina. Si presentò una cordata di imprenditori sassaresi con a capo Leonardo Marras, il vittorioso condottiero della femminile che si avvalorò di un importante braccio destro: Vanni Sanna.
Si parlò di Serie B, di traguardi da raggiungere in breve tempo. Progetti e serietà: i tifosi non aspettavano altro da tempo. Dopo il cambio di presidenza si doveva sciogliere il nodo allenatore. Alberto Mari, andato vicino ai playoff la stagione precedente, temporeggiava, dichiarando di non poter tornare nell’Isola per motivi di famiglia. Firmò con il Frosinone all’insaputa di tutti. Chi chiamare a quel punto? Si andò sul sicuro e riaffiorò alla memoria il nome di Lamberto Leonardi, il tecnico artefice dell’ultima promozione in C1, 13 anni prima. “Bebo” si accontentava di poco per allenare: “Ce vojono du’ punte, un regista e du’ cursori di fascia. Così se gioca”. Filosofia spicciola per un calcio pragmatico e senza fronzoli. Il verace romano fu accontentato in breve tempo.
Dalle esperienze nel continente arrivò il navigato mediano Pietro Garau, il “guerriero” diverrà con Leonardi un libero di costruzione alla Hidegkuti. Il reparto difensivo fu completato con l’innesto di Rudy Nicoletto dalla Juventus. In attacco serviva una punta di peso capace di affiancare Stefano Udassi, acquistato, la stagione precedente, dal Castelsardo insieme a Salvatore “Tore” Pinna. Sempre dal club del borgo marinaro arrivò un giovane di prospettiva destinato a calcare i palcoscenici del grande calcio: Antonio Langella, intuizione felice di Vanni Sanna.
Karasavvidis comparve a Sassari a sorpresa, come il migliore dei regali. Ogni profeta ha la sua Terra Promessa, tutti ma non Theo che, a differenza del detto, lo era anche in patria. Arrivato fresco vincitore della Coppa di Grecia con il Panionios, battendo lo stellato Panathinaikos di Nikopolidis e Basinas (futuri campioni d’Europa) fu presentato alla piazza tra indifferenza e curiosità. Venendo a conoscenza del suo prestigioso trascorso, venne spontaneo chiedersi il perché della sua scelta. Perché Sassari? Perché passare dalla A greca alla C2 italiana? Le domande erano tante per l’oggetto misterioso del mercato. Le risposte si cercano ancora oggi.
Il primo assaggio del suo talento, Theo lo mostrò in occasione di un’amichevole disputatasi ad Alghero con il Cagliari, ribattezzata “Coppa dell’Amicizia”. Il nome non poteva essere più sbagliato e l’epilogo fu chiaramente scontato: gli animi si scaldarono in campo e, di riflesso, i tifosi finirono con l’azzuffarsi in tribuna. Intervenne la polizia e l’occasione di mettere fine alle ostilità tra le due fazioni fu rimandata a data da (tuttora) da destinarsi. Karasavvidis aprì le marcature con un gran gol, raddoppiò Levacovich. Il Cagliari, sotto di due gol, limitò i danni rimontando con Mayelè e Mboma. Buona la prima. Mancava solo un tassello, un pizzico di fantasia, un dieci in grado di decidere da solo le sorti di una gara. Prima dell’inizio del campionato, comparve a Sassari dal Giugliano, squadra pugliese, un altro sconosciuto, un trequartista baciato dal talento destinato a lasciare un segno indelebile a Sassari: Luca Amoruso.
Leonardi ebbe il suo “Zola” come nella stagione ‘86/87, gli uomini giusti per predicare calcio alla sua maniera. L’avvio in campionato fu ottimo. Il debutto in casa, bagnato con il successo ai danni del Castel San Pietro per 2-1 (Udassi e Langella) fu l’incipit di una serie di risultati positivi che porteranno i sassaresi nelle posizioni di alta classifica. L’11 ottobre, la vittoria nel sentito derby contro il Tempio deciso da Langella e Karasavvidis, sbloccatosi a Macerata, diede il primato. La Torres era sola al comando. La macchina costruita da Leonardi procedette spedita senza significativi intoppi sino a dicembre. Andò in black-out contro la Triestina (4-1), riuscendo a raccogliere un solo punto in 4 partite, contro il Faenza. La pausa natalizia coincise con il termine del girone d’andata. Era tempo di tirare le somme dei primi quattro mesi: la società era solida, la squadra, nonostante la crisi dell’ultimo mese, esprimeva un calcio di alto livello e i gol di Udassi e del greco non erano mai venuti a mancare. Serviva rifiatare e ritrovare la mentalità da grande squadra persa lungo il cammino.
A fine gennaio, i ragazzi di Leonardi, dopo aver raccolto una sfilza di pareggi, si stancarono della crisi di “metà campionato” e ripresero a marciare, tesi a limare il distacco con Triestina e Rimini. Il Tempio si rivelò, un’altra volta, importante crocevia della stagione dei sassaresi: si scatenarono Langella e il solito Karasavvidis (doppietta a testa) in un sonoro 4-0. Fu la partita della svolta, nella quale si gettarono le basi per la volata finale. Col passare delle giornate i punti di distacco diminuirono e arrivati a quattro domeniche dal termine, alla vigilia della gara contro la capolista Triestina (60 punti), la Torres ricopriva la seconda posizione insieme al Rimini a quota 57 punti. Il 23 aprile 2000, all’Acquedotto, gli spettatori furono ben 10000 (record stagionale), i friulani impattarono sul muro sassarese e il match si concluse a reti inviolate.
E finalmente ecco il 7 maggio, la domenica uggiosa di un pomeriggio al quale la Torres aveva poco da chiedere. Doveva vincere e sperare che le due antagoniste non facessero risultato. Difficile, quasi impossibile. La promozione appariva come qualcosa di vicino e allo stesso tempo estremamente lontano per quel fato avverso, per quelle due corazzate che si ostinavano a vincere e fare la voce grossa, perché alle favole non ci credeva più nessuno dopo anni di cocenti delusioni. Tifare Torres vuol dire soffrire, rimanere con i piedi ben piantati per terra, non farsi prendere troppo dal risultato. Quel pomeriggio ogni singolo spettatore si lasciò trasportare, Davide vinse veramente contro Golia, il lieto fine non fu la chiosa da raccontare ai bambini prima di andare a letto, ma qualcosa di reale. Contro la Vis Pesaro, decise quello strano greco venuto da lontano. Karasavvidis siglò il suo ultimo gol con la maglia rossoblù, nel giorno più importante, nel giorno in cui Rimini e Triestina caddero in ginocchio contro Castel San Pietro e Gubbio. Il sorpasso insperato avvenne. La C1 fu conquistata quel pomeriggio; vincere a Mestre, la domenica successiva, fu solo una formalità, una festa dove migliaia di torresini accorsero da ogni parte d’Italia.
Il pallone di Karrassavidis non toccò più i picchi dell’Acquedotto, tra stagioni sfortunate e allenatori indisponenti che non si curarono di lui, abbandonandolo a se stesso in un angolo in panchina. Assaporò la Serie B con il Como la stagione successiva, emigrò al Catania, finendo col perdersi nei labirinti delle serie minori del calcio italiano. Ha smesso di giocare nel 2007 in un’anonima squadra dell’Eccellenza Lombarda. Quando Theofilos Karasavvidis ritornò all’Acquedotto (intitolato a Vanni Sanna nel 2001) due anni dopo, da avversario con la maglia della Pro Patria, toccò pochi palloni. Il capocannoniere della promozione non c’era più. Latitava in campo alla ricerca della sua bella copia. Sembrava quasi non volesse arrecare danno alla sua ex squadra, camminando in punta di piedi per non disturbare o mancare di rispetto a quelle persone che aveva reso felici nel suo anno migliore. Sostituito nel secondo tempo, alzò gli occhi fino a quale momento chini dal campo e vide uno stadio dedicargli, in piedi, uno scrosciante applauso, originato dalla stessa moltitudine di cappelli e visi mai dimenticati, da quel lontano 7 maggio 2000. Theo non resse e si rifugiò nel pianto. Nessuno si era dimenticato di lui.
“Perché non rimase un altro anno? Perchè non replicare? Non ha senso.” incalzai il mio interlocutore. “Ogni storia ha il suo tempo e la sua gestazione.” riprese. “Le ultime volte esistono per questo: servono a cristallizzare momenti vissuti, riporli in un cassetto e farli rivivere sotto forma di racconto, senza dare adito a fastidiose domande sul come sarebbe andata a finire se il sodalizio fosse continuato. Congetture senza senso..”. sembrò infastidito. “Non volevo essere inopportuno, ero solo curioso.” minimizzai. “Non lo sei, ma queste maledette ipotesi fanno solo perdere tempo. Quel greco è stato un anno della mia vita e poco importa quanto sia durato quando si è stati felici” mi zittì. “Mi può dire almeno come si chiama? Non ci siamo presentati.. Non sarà mica lei Karasavvidis” proferii ridendo.
“Sono un pallone che a volte sale in alto ed altre cade a pochi metri dalla sua ombra” chiuse un occhio in segno d’intesa e dandomi le spalle, si allontanò dicendo: “Scrivi anche questa quando hai tempo.”
Fiorenzo Pala