SUPER SANTOS – Sognando Cantona: Moussà e la prima squadra di profughi in Italia
Moussà potevate trovarlo tutte le mattine, racchiuso nel suo bomber militare abbottonato fino al mento e il berretto paraorecchie di lana sotto il portone di casa, alla ricerca del primo cliente della giornata. Se non compariva nelle vicinanze, rattrappito in un angolo, probabilmente aveva cambiato direzione, migrando verso lidi più remunerativi, seguendo la scia di cravatte e fumatori dei bar del centro. E’ un ambulante senegalese. Un venditore di accendini e bracciali, cuffie e maglie da calcio. Uno di quelli che si mettono di fronte a voi nel bel mezzo di una conversazione interrompendovi ed esortandovi a comperare un gadget qualsiasi da loro. “Se mi servisse qualcosa, te lo direi. Non ti pare?” Quante volte è capitato di grugnire con disprezzo frasi del genere? Quella mattina di primo autunno però non riuscii a farlo allontanare, non bastarono nemmeno due spiccioli accompagnati dal saluto più gentile. Ero andato a fare colazione in una caffetteria. Scelsi di sedermi all’aperto, per non essere risucchiato nel caotico vociare dei clienti, per l’esigenza di rischiararmi gola e pensieri in disparte, lontano da tutti.
Moussà stazionò di fronte a me, nonostante i ripetuti divieti. “Amigo, my friend comment ça va?” attaccò. “Male, non ho voglia di parlare e non voglio niente”. Dopo ulteriori domande e altrettante risposte seccate, alzò la mano destra portandosela sulle labbra con un ampio gesto, mimando una fumata per chiedermi, in maniera meno petulante, se volessi qualcosa d’accendere. Un sospiro diventò un sorriso, lo invitai a sedersi e gli offrii una sigaretta. Poggiò la borsa per terra e, senza preavviso, si fece serio. “Moussà è come te per le tante cose in testa“, una vampata di fumo e proseguì: “Sono in Italia da dieci anni, non vedo la famiglia da due. Sono scappato come altri miei fratelli”. Una storia apparentemente simile a quelli di altri esuli ascoltata con indifferenza alla TV. Solito viaggio della speranza su un barcone, destino affidato ad uno scafista in veste di salvatore che se ne fotte se tua sorella è finita sotto i piedi di trenta persone e tu a stento respiri.
Moussà mi stupì ancor di più perché non arrivò in Italia via mare, dalla Libia, ma passò dalla Francia. “Con i soldi messi da parte e quelli della laurea ordinai un volo per Parigi. Dovevo stare con mio cugino a Marsiglia, cambiai idea dopo pochi giorni e decisi di andare a Bergamo”. Lavorò in fabbrica per due anni poi fu licenziato. Da lì iniziò il calvario. Moussà, un professore di francese costretto a fare l’ambulante per uno strano scherzo del destino che l’aveva fatto nascere in un paese bollato come “Terzo Mondo”. Amara realtà ormai accettata, diventata tristemente normale e insignificante col passare del tempo. Dopo essersi riempito lo stomaco con un cornetto inzuppato nel latte macchiato, mutò umore e voltò pagina. Si fece più gioviale osservando un giornale sportivo nella mani di un vicino: “Ero un buon portiere. Giocavo in una squadra universitaria. Eravamo un gruppo di amici come i ragazzi del Pagi“. Fu la prima volta che sentii quel nome. Voleva continuare a parlare, si accorse del ritardo e scappò via, portandosi il pesante sacco sulle spalle. “Non posso giocare con loro perché non sono réfugié. Il Pagi è la squadra dei fratelli africani“.
L’Asd Pagi è una squadra che gravita nell’orbita della Seconda Categoria sarda, Girone M per la precisione. La prima in Italia formata da soli profughi. Nessun italiano in campo, gioca solo chi fa parte del centro d’accoglienza o i richiedenti asilo politico. Un manipolo di 36 uomini non iscritti ad una federazione calcistica del paese di residenza, un’Armata Brancaleone di calciatori per caso provenienti dalle regioni più disparate dell’Africa subsahariana che si trascinano il pesante fardello di un passato difficile da dimenticare. Com’è nata la squadra? A maggio 2015, la SDPServizi Società Cooperativa Sociale, dopo essersi aggiudicata il servizio di accoglienza per i richiedenti protezione internazionale con la Prefettura di Sassari, accarezza l’idea di costituire una squadra di calcio al fine di educare ed integrare dei ragazzi in maniera alternativa. Il progetto iniziale di Pierpaolo Cermelli e Fabiana Denurra (presidente e vicepresidente Asd Pagi) di partecipare ad campionato amatoriale viene accantonato, per dar spazio ad un disegno più ambizioso: l’iscrizione in Seconda Categoria.
A causa di un cavillo burocratico, le squadre potevano beneficiare solamente di due extracomunitari: urgeva percorrere un’altra strada. Fu richiesta una deroga alla Figc allegando una lettera nella quale si evidenziavano le ragioni peculiari per le quali i ragazzi del centro Pagi dovessero giocare, sottolineando il ruolo sociale del calcio. Il presidente della FIGC, Carlo Tavecchio fu entusiasta e diede il benestare. Oggi, il Pagi Sassari ha 8 punti. Il primo è arrivato a gennaio ed è stata un’altra occasione per far festa. “Il meglio di noi lo diamo nel terzo tempo, a fine partita”, rivela il presidente Cermelli. “Noi non vinciamo ma perdiamo egregiamente. Non siamo interessati ai risultati, a vincere la competizione, ci basta educarli, insegnar loro la lingua e le regole per vivere nella società. Vogliamo dar loro una possibilità.” I risultati parlano chiaro e non c’è bisogno di leggere i dati classifica per capire un successo.
Il Pagi infatti ha dato vita ad un movimento, ha smosso qualcosa nel mondo del calcio e del sociale, ha dato l’idea che è possibile percorrere strade differenti da quelle abitudinarie se il fine è quello di tendere la mano al prossimo. “Le spese non mancano tra scarpini, calzettoni e divise. In trasferta prendiamo quasi sempre il pullman da 54 posti. Abbiamo anche gli ultras. Lo fai con piacere quando viene da dentro e senti l’esigenza di attivarti”. Date un calcio alla retorica futile e allo stupido moralismo da teatrino Tv. Staccate la presa di corrente e i video dei calciatori affermati. Il vero calcio si gioca a Caniga con les blues dell’Hotel Pagi. Nel centro troverete le storie più variegate, unite dal laccio di una comune e ingiusta sofferenza che vi porteranno a capire che il calcio e la vita hanno un altro sapore quando si perde tutto. Vi accoglieranno Jeffrey Omonigho, portiere della squadra scappato dalla Nigeria per la mancata condivisione delle azioni del governo dopo aver visto il padre trucidato. Troverete la punta Collins e Jallow Alagi, Andrew, Osa, Baba e tutti i profughi costretti a scappare per motivi religiosi, per la difficoltà nel dichiarare la propria omosessualità, per faide tra villaggi, associati ad attentati dinamitardi, nei quali molti di loro hanno perso moglie e figli. Lottano per una vita normale, nessuna cifra a sei zeri. Sperano di continuare ad avere speranza, si aggrappano a quella. In un campo da calcio però lasciateli sognare per novanta minuti di essere per una domenica Pogba o Zidane, Henry o Benzema. Non costa molto.
Marsiglia, all’imbrunire – prima che i rigattieri mettano apposto gli ultimi pezzi di antiquariato e le vecchie vendeuses portino dentro le ceste di vimini e le scatole di latta con dentro le navettes ai fiori d’arancio -, si trucca di nebbia e affonda la lama della nostalgia nelle piaghe dei taciturni passanti su La Canebière o sui vicoli nascosti del quartiere de Le Panier, salendo dal porto. Non penso che Moussa abbia fatto fortuna come si augurava prima di andare. Sarà a suo agio camminando nelle case dai muri color pastello raccontate da Jean-Claude Izzo e percorse con un pallone tra i piedi da un giovane Eric Cantona.
Gli ultimi re della città, figli d’italiani e spagnoli in Francia, d’immigrati come lui. Il primo originario della Campania, il secondo sardo, di Ozieri. Salvatore Cantona, bisnonno dell’ex Manchester United, aveva fatto il suo stesso viaggio, simile per paure e domanda inquisitorie sul futuro a quello dei ragazzi del Pagi. Tutti accomunati nell’avere una valigia in mano e un biglietto di sola andata, nell’aver abbandonato per necessità il paese natale per un altro avvolto nell’incertezza. Il nipote Eric lo sa bene, non dimentica le sue origini e sembra avere le idee chiare sulla nuova società melting pot. “Mio padre è sardo. Mi piacciono le contaminazioni, le radici diverse. Il padre di Zidane è venuto dall’Algeria su un barcone, per lavorare in fabbrica e mandare i soldi a casa, per sopravvivere. La strumentalizzazione politica, le fobie, l’uso della paura nei confronti dell’altro avvelenano la nostra società. La Germania ha vinto i Mondiali con dentro gente di ogni origine. Adoro questo frullato, perché non lascia indietro nessuno“. C’è una rotta che parte da Tripoli e arriva a Palermo, passando per Crotone e Bari, costeggia il tacco dello Stivale e risale fino a Zante, Dubrovnik (Croazia), Pescara e Venezia. Un giro di boa che volge verso Oriente, alle origini della civiltà. Il grecale sa di spezie e rosmarino, basilico e timo, il sole riscalda le rovine di un passato epico decantato dai narratori di ogni tempo sulle note di una Dabkah libanese o un Klezmer. Un bouzouki e un mandolino accompagnano il viaggio verso occidente: Cagliari e Barcellona, Marsiglia e Gibilterra, città multietniche con radici simili, porti differenti dello stesso mare, diverse sfumature di un unico colore.
Fiorenzo Pala