Le storie di Nannibboi tra romanticismo e ironia
Un po’ come Giggirrivva in fondo. Nanni Boi è uno di quei personaggi il cui nome, per giunta anch’esso consolidatosi nella forma diminutiva, non può far altro che accompagnarsi per sua natura al cognome con un convinto raddoppiamento fonosintattico. Nannibboi, diremmo noi in Sardegna. E del resto lo diciamo. La prima volta che ebbi a che fare con lui fu quando mi imbattei, dono di famiglia, nel suo “Tiro Mancino” (a quando una ristampa?) ancora caldo di pubblicazione. Letto, studiato, divorato. Ricordo ancora che, nemmeno undicenne i miei genitori mi spedirono dalla zia “milanese” e al mio fianco, sul sedile dell’aereo, esposta con fierezza in prima fila, c’era quella bibbia di giornalismo rossoblù. E mai avrei pensato che, a distanza di 15 anni, lo stesso autore di quel libro che sono sicuro ha segnato tante diverse generazioni, potesse diventare il direttore del giornale che avevo contribuito a fondare. Né che mi sarei ritrovato a recensirne a nuovo millennio inoltrato la sua seconda fatica libresca. Corsi, ricorsi e destini che si incrociano.
“Storie di pallone in Sardegna” (Kalb Editore, 16,90 euro, 195 pagine) è anzitutto un labirintico alveare ricco di ricordi, dentro al quale Nanni Boi dimostra di sapersi muovere e orientarsi come indiscussa ape regina. I suoi racconti intersecano, per dirla con De Gregori, tutte quelle curve nella memoria nelle quali riesce appunto a districarsi solo chi ha sviluppato il gusto della nostalgia e un sincero amore per la statistica e chi ha saputo vedere il calcio e viverne la passione da diverse complementari prospettive. Quella del perito giornalista, quella del sognante bambino e quella dell’innamorato ad perpetuum di una squadra (il Cagliari) e della sua irraggiungibile reificazione (quello scudettato) che poi altro non è che la giusta sintesi tra le prime due.
E allora, raccogliendo le taglienti e mai banali pillole pubblicate negli ultimi anni nel suo blog “E tu tira”, Nanni Boi ha voluto ordinare, estendendo l’oggetto del narrabile, in ordine cronologico una vasta materia di storie di sardi noti e meno noti (i gemelli Piga, Vanni Sanna, Renato Raccis, Puppo Gorini, Sergio Nocera, Andrea Capone, eccetera eccetera) di uomini, di gesta eroiche e di miserie, senza mai smettere di alimentare quella pulsante vena ironica e sferzante che da sempre lo contraddistingue e che campeggia in bella evidenza sin dalla copertina: non più l’idolatrato arto inferiore sinistro del Bomber leggendizzato da Brera, bensì l’istantanea del vincente diagonale con il quale lo sfortunato e deriso Alberto Gallardo siglò contro il Milan una delle sue (sole) sei reti in rossoblù.
Vena ironica che si ingrossa quando Nanni si fa personaggio e si intrufola nei racconti talvolta nei panni del giornalista, talvolta nelle vesti di calciatore in erba ossessionato dal tiro mancino del numero 11 fattosi eroe di un popolo. Si racconta dunque di un Bellotto profeta barbino nel giustificare con sicumera la preferenza di Beghetto a Toni, o – correva l’estate 1984 – di una insospettabile telefonata a un giovanissimo e sconosciuto Zeman, quando l’afa e la panchina rossoblù vacante invogliavano il giovane redattore Boi a pescare papabili candidati per la guida del Cagliari. E come non sorridere alle picaresche avventure del Nanni raccattapalle al “Sant’Elia” che agogna di posizionarsi dietro la porta del Catania per meglio poter ammirare le bordate di Riva e che finisce per chiacchierare con l’estremo difensore etneo Petrovic? E che dire ancora del Boi liceale che improvvisava e imponeva in classe minuti di silenzio in onore del Bomber?
Attraverso un procedimento di giustapposizione tra memoria collettiva e ramificazioni di ricordi personali, Nanni Boi restituisce così alcune romantiche e “ingiallite” istantanee del calcio isolano a partire dagli albori dell’epopea del grande Cagliari per arrivare ai giorni nostri elencando e raccontando la schiera di sardi che hanno avuto l’onore di calcare i campi di Serie A. Premendo con astuzia ora il tasto della nostalgia, ora quello della mordacia, ora quello del sentimentalismo, come quando per esempio riscatta l’onore di un Fabian O’Neill letteralmente messo alla porta in maniera pretestuosa da Giampiero Ventura durante la sua fugace seconda avventura cagliaritana. Percorre così corsi, vie e stradine secondarie, guidando il lettore nei meandri e nelle insidie dell’aneddotica e della statistica, agevolandolo con una scrittura che è insieme asciutta e leggera.
La speranza è che queste “Storie di pallone in Sardegna”, libro fresco e godibile, possano segnare non un punto di arrivo, ma un rinnovato punto di partenza per quella letteratura sportiva che in Italia fatica a uscire dalla nicchia. Personalmente, sono le ultime considerazioni, tra le pagine ho intravisto nitidamente in potenza le stesse tensioni, lo stesso umorismo e lo stesso piacere di raccontare che tutti abbiamo ammirato negli anglosassoni Nick Hornby di “Febbre a 90’” e Colin Shindler di “La mia vita rovinata dal Manchester United”. Ma questo è niente più che un auspicio che in futuro la Sardegna possa offrire al panorama nazionale un romanzo a tema calcistico che sappia gareggiare con quelli dei maestri britannici e sudamericani. Per il presente, invece, mi sento di dire che un tesoro di ricordi, specie quando gustosi e per lo più inediti, non dovrebbe mancare in nessuna libreria da salotto che si rispetti.
Matteo Sechi
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