La Sardegna ai tempi di Riva: quando un uomo diventa il volto di un popolo

Tempo fa, rovistando negli album di famiglia, trovai una foto stropicciata in bianco e nero in cui compariva mio padre, appena tredicenne, che portava in braccio, con orgoglio e un sorriso smagliante, una statuetta di un uomo in un completo bianco con i quattro mori sul petto, prestante e baldanzoso, col petto in fuori e 

Continua a leggere

Gigi Riva

Gigi Riva

Tempo fa, rovistando negli album di famiglia, trovai una foto stropicciata in bianco e nero in cui compariva mio padre, appena tredicenne, che portava in braccio, con orgoglio e un sorriso smagliante, una statuetta di un uomo in un completo bianco con i quattro mori sul petto, prestante e baldanzoso, col petto in fuori e un pallone in mano con aria di sfida. La statuetta, simile a quella presente nella sede di Via Ariosto a Cagliari, ritraeva, in tutto il suo splendore, Luigi Riva da Leggiuno. Il cimelio gli era stato regalato da un suo zio paterno che non perdeva occasione, in quel lontano 1970, di presenziare all’Amsicora per dare l’apporto a quei ragazzi che stavano scucendo dalla maglie delle potenti e ricche squadre del Nord, il tricolore, il vessillo dei vincenti.

La statua di Gigi Riva presente nella sede di Viale Ariosto a Cagliari

La statua di Gigi Riva presente nella sede di Viale Ariosto a Cagliari

I viaggi che compiva “tzìu Frantziscu” per arrivare allo stadio, al tempo, erano delle vere e proprie traversate, dei pellegrinaggi simili al Cammino di Santiago per tempo impiegato e sacrifici fatti lungo il percorso, con tanto di santo da venerare e idolatrare una volta giunti alla meta. Con Gigi Riva non c’era niente da scherzare, sacro e profano s’intrecciavano, legandosi indissolubilmente, diventando una medaglia con un’unica faccia. La domenica era il giorno a lui consacrato, per il resto c’era sempre tempo. “Su Casteddu e bastada oe” (“C’è solo il Cagliari per oggi”) continuerà a dire anni dopo quando si ritroverà relegato in un letto, non avendo più la possibilità di “scendere giù”, con la telecronaca della partita che rimbombava nella stanza e un rigoroso silenzio di tomba dei parenti che non dovevano disturbarlo, proferendo parola, per quei lunghissimi 90 minuti in sua presenza. Si partiva alle prime luci dell’alba, appaiati in pullman e mezzi raccattati per l’occasione. Scordatevi linee dirette, strade a quattro corsie e freccerosse. Scordatevi pure la comodità e mettete in quelle transumanze di tifosi strade polverose,  più simili a sentieri e mulattiere che tagliavano trasversalmente l’intera isola da Nord a Sud unendo, nella passione rossoblù, un’isola da sempre divisa. Lungo il tragitto si raccattavano gli ultimi e occasionali tifosi e si proseguiva. La felicità richiedeva sforzi e sacrifici, loro lo sapevano.

La Sardegna dei primi anni ’70 era una landa desolata, una terra di frontiera, lo spauracchio di carabinieri, mandati per scontare un’agognata pena e di giocatori che si vedevano allontanati dai palcoscenici del grande calcio e dalla movida del “continente”. Il giovane Riva, appena sbarcato nel Golfo degli Angeli, dalla finestra di un albergo appena era calata la notte, vendendo in lontananza le lampare dei pescatori, chiese ai suoi accompagnatori: “Quella lì deve esser l’Africa?” una battuta e una semplice domanda bastò per prendersi poi un calcio dal suo allenatore. Erano gli anni in cui nelle sale veniva proiettato “Sardinia” della Walt Disney, in cui i sardi, nella visione edulcorata e romanzata della casa cinematografica statunitense, erano omologati ai Navajos, Lapponi e Uomini blu del Marocco. Ci pensò Fiorenzo Serra, a rivalutare, nell’immaginario collettivo, l’isola con il suo documentario “Per un pugno di Terra” dal quale trasparivano volti sporchi di fatica, senza filtri. Pastori, pescatori e minatori assunsero, al cinema, una nuova dignità. Il regista di Porto Torres fece capire che “l’arretratezza” dei sardi era sostanzialmente dovuta ad un isolamento diverso da quello geografico.  Aveva acceso una miccia che poi sarebbe esplosa, facendo salire la regione ad onor di cronaca, quel 12 aprile 1970.

Riva e scudetto, il glorioso Cagliari, l’Amsicora, le rovesciate, la gamba rotta da Norbert Hof quella disgraziata sera, i tiri che sibilavano mentre partivano  e si scagliavano in rete come il rombo di un vibrante tuono tra gli scongiuri del malcapitato portiere, il mondiale in Messico e il 4-3 alla Germania e tante altre storie dove il calciatore di Leggiuno era protagonista. Non serve ritrattare argomenti triti e ritriti, “per dire cose vecchie con il vestito nuovo” come direbbe Francesco Guccini. Bisogna capire ciò che Gigi Riva è diventato: l’emblema di un riscatto sociale, una rivalsa in tempi i cui si era derisi e denigrati, stereotipati e rifiutati. Vallo a spiegare a mio zio che Riva era solo un giocatore. Ogni volta che parlava di lui e di quel storico Cagliari, si commuoveva, abbassava lo sguardo e sussurrava con una flebile voce, rotta dall’emozione. “Era molto di più. Era una speranza in un tempo in cui eravamo discriminati da tutti”. Capite questo passaggio, ritornate indietro nel tempo, dimenticatevi per un attimo del mondo come lo conoscete ora. Pensate cos’ha rappresentato per dei perdenti nati, iniziare a vincere, dettare legge nei campi di un’Italia saccente e con la puzza sotto il naso, alzare la testa, zittire gli insulti con gol e vittorie. “Ci chiamavano pecorai e banditi in tutta Italia e io mi arrabbiavo. I banditi facevano i banditi per fame, perché allora c’era tanta fame, come oggi purtroppo. Il Cagliari era tutto per tutti e io capii che non potevo togliere le uniche gioie ai pastori. Sarebbe stata una vigliaccata andare via, malgrado tutti i soldi della Juve. Dopo ogni partita spuntava Allodi che mi diceva “Dai, telefoniamo a Boniperti”. Ma io non ho mai avuto il minimo dubbio e non mi sono mai pentito.” Capite chi è Gigi Riva? Capite chi è stato? Torino e Milano venivano invasi da emigrati sardi, una moltitudine, migliaia provenienti dalla Francia, la Svizzera e la Germania. Fu una boccata di ossigeno, un urlo liberatorio e rabbioso per ribadire che: “Noi ci siamo, lottiamo e vinciamo pur avendo tutti contro”. E’ curioso che lo scudetto, i ragazzi guidati dall’enigmatico “filosofo” Manlio Scopigno, lo abbiano vinto giocando in un campo col nome del rivoltoso cartaginese, anche lui sardo di adozione, che guidò la rivolta anti-romana nel 215 a.C. Strani casi.

Una statua, di altre fattezze, ad altezza d’uomo, dovrebbe comparire a breve davanti allo stadio che l’ha visto protagonista, con un’operazione di crowdfounding o finanziamento collettivo. Tifosi e cittadini si uniranno, faranno cerchio e metteranno i fondi per la realizzazione del progetto scaturito dalla mente del giornalista sardo in stanza a New York, Pietro Porcella. Per l’Italia è la prima volta in cui un personaggio in vita viene insignito di tale onorificenza.

Tziu Frantziscu è scomparso un pomeriggio di un torrido agosto del 1998. Il suo Cagliari gli aveva regalato l’ultima carezza, prima di morire, conquistando il 14 giugno una promozione grazie al 2-2 interno contro il Chievo, dopo lo smacco e la delusione subita dallo spareggio contro il Piacenza l’anno prima. Non penso abbia preso bene l’ultima retrocessione, si sarà arrabbiato non parlando per giorni, mi piace pensare pure questo mentre abbozzo un sorriso amaro. Mio padre, da buon sardo generoso,  regalò la statuetta di Riva ad altri lontani parenti “continentali” voglioso di trasmettere loro quella passione che lo animava. Per loro Luigi Riva da Leggiuno era e sarà sempre un ottimo giocatore come altri, che ci volete fare? Non possono capire ciò che vi ho appena raccontato, ma non bisogna fargliene una colpa. Bisogna viverla questa terra, assorbirne i profumi e le delusioni, ascoltare le storie di ieri che sembra lontano, ma che in realtà è dietro l’angolo, stringere i denti e resistere per non scappare, per darla vinta a tutte quelle persone che “Rombo di Tuono” ha sempre rifiutato.

Questo è ciò che Riva è stato per la Sardegna ma cos’è stata l’isola per lui? “Ero senza famiglia e ne ho trovate tante: quella del pescatore che m’ invitava a cena, quella dell’ edicolante, del macellaio, del pastore. Sono arrivato a Cagliari massacrato dalla vita, incazzato, chiuso e anche cattivo, se mi toccavano reagivo.” La storia sembra la stessa per entrambi. Gigi Riva lo capì, aveva capito tutto della Sardegna, perché: “Si conobbero. Lui conobbe lei e se stesso, perché in verità non s’era mai saputo. E lei conobbe lui e se stessa perché pur essendosi saputa mai s’era potuta riconoscere così”.

Fiorenzo Pala

Commenti Facebook


Facebook
Facebook
Twitter
Visit Us
Follow
Google+
YouTube
Instagram

Lascia un commento