Basket, Serie C – Il guerriero Schiffini ha detto stop: “Troppi infortuni, ma lascio senza rimpianti”

La fotografia scelta per corredare il suo profilo Whatsapp non lascia spazio a tante interpretazioni: un bel paio di Nike appese per i lacci ad un chiodo sulla parete bianca. Dopo ventidue anni di onorata carriera sui campi di Serie B e C, Emanuele Schiffini ha proprio deciso: basta con il basket. “E’ stata una decisione sofferta”, ammette. E chi lo conosce sa quanto una affermazione di questo tipo suoni eufemistica. “Ma alla mia età, – spiega – senza la possibilità di poter dedicare tanto tempo alla cura della forma fisica, è difficile proseguire l’attività”.

Dopo aver guidato da capitano l’Olimpia Cagliari alla promozione in Serie B, in estate Schiffini aveva deciso di provare una nuova avventura alla Sipal Genneruxi, squadra partita con tante ambizioni (presto naufragate, anche a causa degli infortuni), nel campionato di Serie C: “Un gruppo di amici nel quale mi sono trovato benissimo – prosegue – però andare avanti non sarebbe stato produttivo nè per me, nè per la squadra. E non mi sentivo nemmeno a posto con la coscienza, perchè non riuscivo a dare il massimo. Chissà, forse senza l’ultimo problema alla schiena avrei tirato avanti fino al termine della stagione, ma la realtà è che avevo esaurito le batterie. Poi non volevo togliere ulteriore tempo alla mia famiglia”. E ora? “Continuo ad andare al campo per vedere i miei ex compagni. E’ una sofferenza non poter giocare con loro, ma penso sia meglio staccare un pochino alla volta dal mondo del basket. Quando arriva il sabato soffro perchè mi manca il campo, allora cerco di impegnarmi al massimo in altre cose”. La carriera da allenatore, al momento, non è una priorità: “Anche perchè il ritiro è fresco, e la testa è ancora quella del giocatore. Se potessi, però, mi piacerebbe tornare ad allenare i bambini del minibasket. E’ il momento in cui si avvicinano alla pallacanestro interpretandola come un puro e semplice gioco, ben lontano dagli isterismi che ormai caratterizzano anche le categorie giovanili. In ogni caso, al momento, la mia vita è lontana dai campi. Poi, in futuro, chissà”. E nell’attesa, allora, non rimane altro che sfogliare il voluminoso album dei ricordi.

Partiamo dagli inizi: qual è stata la figura più importante per te a livello giovanile?
“Ho svolto tutta la trafila giovanile all’Esperia, dal minibasket fino alla prima squadra, esordendo in B1 quando, per dire, giocava ancora Pippo Lai. Ho avuto tanti allenatori, ognuno dei quali mi ha insegnato qualcosa. Da Michele Boero a Franco Carpineti, grande maestro di fondamentali, passando per “Poppi” Murgia, dai cui ho ereditato il soprannome. Ma se proprio devo scegliere qualcuno, dico Franco Cruccas. Ha creduto fortemente in me, ancora prima che entrassi nel giro della prima squadra, e negli anni mi sono trovato a lavorare con lui per correggere i miei difetti nel tiro da fuori. Ancora oggi, quando quando parliamo, mi ricorda che uno dei suoi maggiori rimpianti è stato quello di non aver lavorato con me come avrebbe voluto.”

Diciamo che hai dovuto crescere in fretta: eri ancora juniores quando affrontasti, nel 1996, il primo campionato di B1.
“Quell’anno, la società che era iscritta B d’Eccellenza, per non fallire decise di affrontare la stagione con la squadra juniores. Fu un disastro annunciato: perdemmo tutte le partite tranne una, vinta peraltro a tavolino (contro la Ricciardi Taranto, nei playout, ndr) ma quell’anno fu fondamentale per la mia crescita. Risultai tra i cinque migliori realizzatori dell’intero campionato, e arrivò pure la convocazione all’All Star Game: una bellissima soddisfazione, con tanto di diretta tv su Rai Tre.”

Di quella stagione rimane anche una tua prestazione “monstre” da 36 punti a Campli.
“Una di quelle classiche partite in cui entrava di tutto. Quell’anno eravamo abituati a prenderne 30 o 40, invece in Abruzzo perdemmo solamente di dieci o quindici punti: praticamente una mezza vittoria. Il giorno successivo, sul giornale, si parlava di me come dell’italo-argentino Schiffini. Forse non credevano potessi essere sardo! Quel periodo fu comunque straordinario, e ci terrei a ricordare una persona in particolare.”

Prego. “Gigi Bergamini. Più che un presidente, è stato come un secondo padre per me e mi è stato accanto anche nella vita al di fuori dalla pallacanestro. In tutti questi anni, ogni qualvolta ho ottenuto un risultato importante, gli ho rivolto un pensiero, sperando di farlo felice. In fondo era anche merito suo. Aveva un amore viscerale per la pallacanestro, e credo che a Cagliari non sia stato capito del tutto.”

Cosa ricordi degli anni passati lontano dalla Sardegna, tra Fabriano, Giulianova e Arezzo?
“Ricordo di aver provato tutte le esperienze possibili e immaginabili. Sono stato in squadre super che però non rendevano e si salvavano all’ultima giornata. Ho vinto ad Arezzo un campionato di C1 da protagonista. Ho vissuto gli stipendi congelati perchè non si vinceva, gli insulti del pubblico e le critiche dei dirigenti. Alla fine la vita da professionista è anche questo. Ma sono cresciuto moltissimo sotto tutti i punti di vista. Del resto situazioni come quelle ti mettono alla prova. Ad Arezzo arrivai con un altro sardo, Nicola Elia. Vincemmo il campionato di Serie C, l’anno successivo eravamo primi anche in B2. Poi una scelta di vita: a fine marzo, per questioni strettamente personali e non legate alla pallacanestro, feci le valigie e tornai a Cagliari. In quel momento, negli ambienti delle serie minori, mi conquistai quella nomea di “cavallo pazzo”che mi ha poi precluso la possibilità di fare altre esperienze lontano dalla Sardegna. Peccato. Tra l’altro l’Eutelia uscì al primo turno dei playoff contro l’ottava in classifica. Mi sono sempre chiesto cosa sarebbe successo se fossi rimasto lì.”

Chiusa l’esperienza in Toscana, arriva l’Olimpia.
“La parentesi più importante della carriera, a casa mia. Quando arrivai, la squadra disputava la C2. Non avevo mai giocato in un campionato regionale. Il primo anno perdemmo la finale promozione contro Oristano, mentre l’anno successivo riuscimmo a salire in C1, e ci fu la nascita del nucleo storico che ha accompagnato l’Olimpia fino alla Serie B.”

Tanti anni a inseguire la promozione, che finalmente arriva dopo quell’incredibile derby contro l’Accademia Sestu. Poi la separazione: sembra quasi una beffa.
“Ma non lo è assolutamente, perchè la scelta è stata mia. E’ stato strano, perchè pensavo che con l’Olimpia non sarebbe mai finita, però evidentemente doveva andare così. Ho comunque ottimi rapporti con tutti, e continuo a sentire giocatori e dirigenti che, nel corso degli anni, sono diventati degli amici. Porterò sempre con me il ricordo dell’ultima stagione, in cui mi sono tolto tante soddisfazioni, anche per merito di un bravo allenatore come Simone Grandesso. L’Olimpia è sempre l’Olimpia, per me.”

Guardandoti indietro, c’è qualche partita in particolare che ti è rimasta nel cuore?
“Senza dubbio la gara-5 della finale playoff che sancì la promozione di Arezzo in B2. Battemmo Siena dopo un’autentica maratona, e io giocai la partita perfetta con 22 punti a referto e una prestazione davvero importante. Poi mi piace ricordare un’altra partita, giocata all’epoca delle giovanili, che rappresenta forse l’emblema della mia carriera. Una gara contro il Sant’Orsola allenato da Pietro Carlini, in cui giocavano Federico Rotondo, Maltinti, Vidili e tanti altri avversari che poi ho ritrovato nel corso degli anni. In quella partita feci 41 punti, tutti di voglia e caparbietà. Avevo il fuoco negli occhi. Spesso, chiacchierando con mio padre, ci troviamo a ricordare quella partita.”

Passiamo ai compagni: quali ricordi con maggior piacere?
“Guardando al passato mi vengono in mente Simone Velluti, Carlo Galetta, Antonino Di Gennaro, Fabio Cossa, Nicola Elia. Poi c’è Sandro Trevisan, giocatore fortissimo che per me è stato come un fratello maggiore. Tra quelli più recenti, confesso che avrei voluto giocare di più con Enrico Peretti. E non posso dimenticare Michele Mastio, un ragazzo col quale sento di avere il DNA in comune. Lui è senza dubbio più talentuoso di me, ma eravamo accomunati dallo stesso spirito battagliero. Ogni volta che il gioco si faceva duro, trovavo in lui la mia spalla ideale. Non a caso io e Michele eravamo anche i più bersagliati dal pubblico sui campi di tutta Italia.”

Capitolo allenatori: con quale hai legato di più?
“Senza dubbio Claudio Corsi. E’ stato importantissimo per me, ha rivoluzionato completamente il mio modo di giocare quando non ero più un ragazzino. E assieme a lui mi sono tolto tante belle soddisfazioni.”

Abbiamo parlato delle partite più belle della tua carriera. Ce n’è qualcuna, invece, che vorresti rigiocare?
“Forse gara-1 dei playoff DNC dello scorso anno contro la Stella Azzurra Viterbo. Ma la realtà, a costo di sembrare presuntuoso, è che non ci sono partite che vorrei rigiocare, perchè alla fine negli appuntamenti davvero importanti le mie squadre non hanno mai steccato. Per esempio, ricordo la promozione in B1, a Cagliari, quando battemmo in finale la Santa Croce Olbia davanti a 4mila persone. Ero un ragazzino, ma con Morganti ero stato capace di ritagliarmi uno spazio importante. Non posso dimenticare nemmeno la partita decisiva per il salto in C1 dell’Olimpia: nella decisiva gara-3 sbancammo Sassari dopo essere partiti con un break di 24-3 per i nostri avversari. Il gruppo era quello di sempre: io, Federico Manca, Michele Mastio, Marco Sirianni. Insomma, quando c’era da vincere ho vinto”.

Nella carriera di Emanuele Schiffini, in sostanza, non ci sono rimpianti.
“E’ così. Ripeto, mi sarebbe piaciuto sapere come sarebbe andata ad Arezzo se non fossi andato via. Stessa cosa con l’Olimpia di quest’anno. Sicuramente non avremmo fatto i playoff, però sono convinto che avrei saputo dare il mio contributo anche in Serie B. Ma abbiamo fatto delle scelte diverse, e ci sta.”

C’è un giovane in cui ti rivedi, almeno in parte?
“Abbiamo caratteristiche diverse, ma quanto a voglia, intensità e applicazione mi rivedo in Stefano Chessa. Nel corso degli anni ho sempre cercato di dargli dei consigli e di fargli capire che, se uno ci mette il cuore, può commettere tutti gli errori del mondo che rimane comunque in pace con sè stesso. Spesso lo sento e gli faccio i complimenti. Ha capito che non bisogna mai pensare di essere arrivati, perchè nel momento stesso in cui lo pensi hai già perso.”

Non sei un gigante e non hai mai avuto nel tiro da fuori un punto di forza, però hai saputo costruirti una carriera grazie all’impegno e alla determinazione. Doti che forse mancano, oggi, a tanti ragazzi che vengono fuori dai settori giovanili.
“Lo penso anche io. Non c’è più quella voglia, quella cattiveria che avevano i giocatori della mia generazione. I giovani sono diversi, adesso. Ora è tutto facile da raggiungere, non solo nel basket. Viviamo nell’esaltazione del gesto atletico ed estetico, sacrificando la concretezza. Io non sono arrivato in Serie A, non ero di certo un campione, ma da ragazzo facevo anche due o tre allenamenti al giorno. Mi allenavo in continuazione e non era mai abbastanza.”

E proprio questa abnegazione, tanti anni fa, ti stava per regalare una occasione importante.
“E’ un episodio che mi fa sempre piacere ricordare. Quando giocavo nell’Esperia, ai tempi delle giovanili, partecipammo al tradizionale torneo di Pasqua organizzato dalla Scuola Basket Cagliari. Quell’anno fu invitata anche la Virtus Bologna, allora sponsorizzata Knorr, che era allenata da Giorgio Valli. Qualcuno vide qualcosa in me, e alla fine dell’anno ci fu la concreta possibilità di andare a Bologna, nella foresteria della Virtus. Non se ne fece nulla perchè per i miei genitori era troppo presto, e poi la priorità era lo studio. Forse anche io farei lo stesso, oggi, con i miei figli. Non è assolutamente un rimpianto per me, anzi, vuol dire che è valsa la pena dannarsi l’anima per tanti anni dietro una palla da basket. E poi io, la mia Serie A, l’ho raggiunta lo stesso.”

Roberto Rubiu