… Andrea Pisanu: “Perseguitato dalla sfortuna, ma non ho rimpianti. Parma nel mio cuore, e al Cagliari avrei voluto dare di più”
Nemo propheta in patria sua. Ovvero nessuno è profeta nella propria patria. Niente più di questa locuzione latina è adatta a descrivere la carriera di Andrea Pisanu. Enfant prodige del calcio sardo, realizza il sogno di migliaia di giovanissimi cuori rossoblù esordendo in Serie A, con la maglia del Cagliari, ad appena 16 anni. Ma una carriera che sembrava in discesa, è diventata col passare del tempo una durissima corsa a ostacoli da affrontare sempre contro la stessa avversaria: la sfortuna. Eppure 15 anni e 6 operazioni dopo quel pomeriggio del Delle Alpi, Pisanu continua a divertirsi come la prima volta, e rivive il film della sua carriera un fotogramma dopo l’altro. Sempre col sorriso sulle labbra.
Partiamo dal presente: dopo il tuo arrivo il Prato sembra volare. Tre vittorie e zona playoff a portata di mano.
Sì, le ultime due vittorie sommate al 3-0 a tavolino sulla Nocerina ci hanno permesso di agganciare il treno dei playoff. Da questo momento in poi saranno decisive le partite in casa: per arrivare a giocarci gli spareggi promozione dovremo vincerne il più possibile.
E’ difficile riadattarsi all’Italia dopo l’esperienza di Montreal?
Abbastanza. Va detto però campionato americano è molto duro, soprattutto dal punto di vista fisico e atletico. Ma anche sotto il profilo tecnico, contrariamente a quanto si pensa comunemente, ci sono diversi giocatori che non sfigurerebbero affatto nel nostro campionato. Riadattarsi alla realtà italiana è un pochino difficile, però alla fine il calcio è lo stesso dappertutto. L’importante è avere la testa giusta. Io ero già stato a Prato due stagioni fa, conoscevo l’ambiente e quella di tornare qui è stata una mia precisa scelta.
Secondo te il livello del “soccer” americano sarà mai paragonabile a quello europeo?
Sono convinto che il calcio americano abbia un grande potenziale. Al di là delle questioni meramente tecniche, è un campionato che affascina tantissimo. L’unica pecca, a mio avviso, è quella relativa alla fase tattica. Gli americani sono un pochino indietro perchè calcisticamente sono nati da poco e quindi non hanno una grande tradizione di scuole calcio. In Italia a 18 anni i ragazzi hanno già acquisito delle nozioni tattiche ben precise. Negli States, invece, mancano gli insegnamenti nelle accademie, e mancano soprattutto allenatori preparati. La MLS è già piuttosto seguita, ma per aumentare il livello si dovrebbe iniziare a portare non solo grandi giocatori a fine carriera, ma anche elementi di caratura medio alta. Ci vorrebbero inoltre dei tecnici europei, anche per il settore giovanile. Mettendo a posto queste cose, secondo me riusciranno a mettere in piedi un signor campionato. Non dico paragonabile ai top del Vecchio Continente, ma almeno avvicinabile.
Qual è il bilancio extra calcistico dell’annata canadese?
E’ stato un anno meraviglioso, che mi ha aperto la mente e mi ha permesso di conoscere una una cultura diversa. Montreal, tra le altre cose, è una citta bilingue, e questo è un aspetto che arricchisce molto. Me ne accorgo vedendo la mia bambina, che già parla benissimo l’inglese. Inoltre mi ha colpito l’efficienza dei servizi: là d’inverno capita di arrivare anche a 27 gradi sotto lo zero. Quando sono arrivato pensavo di trovare un sacco di disagi dovuti al maltempo, invece tutto funziona alla perfezione. E’ una città meravigliosa, tant’è che mia moglie e io abbiamo deciso di far nascere in Canada il nostro secondo genito. Diciamo che se avessi saputo prima che da un’esperienza all’estero si potevano trarre così tanti vantaggi, l’avrei fatta molto tempo prima.
Per quanto riguarda il campo, invece?
Posso dire che è stato un campionato tutt’altro che semplice. Il format della MLS è avvincente e ricorda quello della NBA. Chi fa una brutta stagione ha la possibilità di rifarsi l’anno dopo scegliendo per primo al Draft, e tutte le squadre hanno un identico budget di spesa. Si tratta di un torneo livellato che ogni anno presenta delle sorprese: se un anno vinci e vai ai playoff, magari la stagione successiva ti può capitare di arrivare ultimo. Ma l’aspetto che ho apprezzato maggiormente è stato un altro.
Prego.
La cultura dello sport. In America non c’è esasperazione, il calcio è considerato solo uno gioco. Tu, calciatore, dai il meglio di te stesso in campo, sudi la maglia e nessuno si permette di insultarti o di venire a chiederti conto di qualcosa. Gli americani vanno allo stadio semplicemente per godere di uno spettacolo sportivo. Se vinci ti applaudono, altrimenti va bene lo stesso. L’indomani comincia un’altra settimana e si volta pagina.
E ora ti è toccato tornare in un Paese dove non si è ancora spenta l’eco dei casi Padova e Nocerina…
Sotto questo punto di vista, tornare in Italia è traumatico. Ora ho 32 anni, e a vedere queste scene mi fa male. Non è il calcio che vorrei vivere adesso. Quando hai 20 anni è diverso, la pressione della piazza ti dà adrenalina. Ma arrivati a una certa età è diverso. Qui c’è troppa esasperazione, è inconcepibile che uno debba levarsi la maglia davanti ai tifosi solo per aver perso una partita.
Torniamo a te: una carriera da girovago, ma ti è mai capitato di avere nostalgia di casa?
Cagliari è la mia città, è il posto dove vivono la mia famiglia e i miei amici. E’ chiaro, mi manca la Sardegna e mi spiace anche il fatto di non aver potuto costruire lì la mia carriera. Comunque non ho rimpianti, vuol dire che doveva andare così.
Due presenze in rossoblù forse sono troppo poche per non avere qualche rimpianto.
Sì, avrei voluto fare qualcosa di più. Sono passati tanti anni dal mio esordio col Cagliari, eppure ricordo benissimo che c’è stato un momento in cui ho pensato: questo è il massimo, è un inizio di carriera da sogno. Giocare in Serie A con la maglia della squadra della mia città, non potevo chiedere di meglio. Poi per qualche disguido e per poca comunicazione mi sono trovato a dover fare le valigie, e lì è iniziato il mio percorso. Però nella vita non si sa mai, magari se fossi rimasto a Cagliari non avrei giocato tanto in Serie A.
Tu, così come altri giovani della tua generazione – penso, per esempio a Emilano Melis e Davide Carrus – siete stati mandati molto presto a fare esperienza lontano dalla Sardegna, anche in squadre che non si adattavano alle vostre esigenze. E’ possibile che questa pratica abbia rallentato il vostro processo di crescita?
Probabilmente sì. Allora la società voleva assolutamente che andassi a farti le ossa in Serie C. Ora, invece, si è capito che un giovane è meglio tenerlo in casa e farlo crescere giorno per giorno. Certo, se c’è la possibilità di giocare è giusto approfittarne. Se parlo con un ragazzo, gli dico: è giusto che tu vada a giocare, però guarda bene dove, in che situazione e quali sono le variabili in gioco. Prima purtroppo non avevi grosse possibilità di scelta. Io a Siena vinsi il campionato di Serie C ma giocai poco, appena 11 partite, mentre quell’anno ricordo che il Cagliari retrocesse e i ragazzi che rimasero lì, a poco a poco, giocarono tutti. Però erano scelte che faceva la società. Tra l’altro la Serie C a quel tempo era un campionato molto difficile. A 18 anni, alla prima esperienza lontano da casa, non era assolutamente semplice far bene.
Forse a Cagliari hanno capito la lezione. Il percorso di Nicola Murru insegna.
Esatto. Visto anche il momento economico che viviamo, la tua squadra devi riuscire a costruirla il più possibile in casa, coltivando i ragazzi più bravi. Non tenendoli non sotto una campana di vetro, sia chiaro, percè – come si dice – a volte fa bene anche prendere degli schiaffi. Se l’anno scorso Murru fosse andato, chessò, alla Nocerina, magari adesso non staremo qui a parlare della sua convocazione nell’Under 21. E se si fosse perso la colpa non sarebbe stata certamente sua.
Osservando la parabola di Matteo Mancosu viene da chiedersi: perchè tanti giocatori sardi vengono fuori solo alla distanza? E come mai altri ancora si bruciano alla prima esperienza fuori dalla Sardegna?
Il discorso è ampio e parte da lontano. Prima, a meno che non si giocasse in Primavera o negli Allievi Nazionali – a livello giovanile non ci si poteva confrontare con realtà di pari valore o più forti. Di conseguenza, quando si usciva fuori, non si aveva la preparazione giusta per affrontare certe esperienze. Poi mettiamoci anche il fatto che noi sardi siamo un po’ particolari e spesso fatichiamo ad adattarci lontano dall’Isola. Però va detto che il nostro carattere ha anche un rovescio della medaglia positivo: siamo talmente testardi e determinati che non molliamo fino a quando non raggiungiamo il nostro obiettivo.
20 settembre 1998: debutti in Serie A, ad appena 16 anni, al Delle Alpi contro la Juventus. E per poco non ci scappa pure il gol.
E’ stato bellissimo, sì, ma è successo tutto così velocemente che non sono riuscito ad assaporare a pieno il momento. Ricordo che la settimana precedente la passai interamente con la Primavera, e nulla lasciava presagire un esordio con la prima squadra. Poi il venerdì si fece male Roberto Muzzi, e, proprio mentre stavo lasciando il campo di allenamento, mi fermò il grande Enzo Fortunato, che mi disse: “Guarda che domani devi venire ad allenarti con noi e poi parti in ritiro.” Non me l’aspettavo minimamente. Almeno, non in quel momento.
Emozioni?
Tante. Ho ancora in testa una giocata strepitosa di Zidane, proprio di fronte alla nostra panchina: un controllo di mezzo esterno con lo sguardo rivolto dalla parte opposta. Per me era un sogno vedere certe cose dal vivo. Andammo in svantaggio quasi subito (rete di Inzaghi, ndr), poi, nel secondo tempo, Ventura mi disse: “Vai a scaldarti”. Io non capivo più niente, e iniziai a fare avanti e indietro come un matto. Al 72′ l’ingresso in campo al posto di Carruezzo, che era esausto. A parte la famosa occasione col mio colpo di testa, ricordo un’azione incredibile, che avrebbe potuto darci l’1-1: Vasari andò via sulla fascia, io tagliai sul primo palo e Birindelli mi seguì. Pallone morbido sul secondo palo e De Patre, che quei gol non li sbagliava mai, la mise incredibilmente fuori. Peccato. Tra l’altro Tiziano era quello che mi accompagnava in macchina all’allenamento e mi trattava come un fratello minore. Poi però in campo me le dava di santa ragione! L’ho ritrovato a Parma qualche anno fa, è stato bello. E’ sempre una persona fantastica.
Torniamo alla partita: triplice fischio e, nonostante la sconfitta, i fari sono tutti puntati su di te.
Andai subito a toccare la maglia di Del Piero, il mio idolo. Ero sereno, non mi sembrava di aver fatto nulla di così speciale. Poi però cominciai a vedere un sacco di gente che mi veniva a fare i complimenti. Il primo fu Alessio Scarpi, che mi diede il benvenuto in Serie A. Fuori dagli spogliatoi, più tardi, ci furono i flash e le domande dei giornalisti. Ma non mi trovavo a mio agio. Sono una persona molto riservata, non mi è mai piaciuto stare al centro dell’attenzione. Io facevo il calciatore e avevo giocato una partita. Era il mio mestiere, tutto lì.
Invece, il giorno successivo, una troupe televisiva si mette immediatamente sulle tue tracce andando addirittura a intervistare i tuoi compagni di scuola.
Vero. Mi dissero che sarebbero andati andati dei giornalisti a scuola, allora evitai accuratamente di farmi trovare. Poi però vennero a casa e mi fecero l’intervista lì. Allora tutte quelle attenzioni mi davano quasi fastidio, però ripensandoci mi accorgo che in effetti si trattava di un evento straordinario. Un prodotto locale che riesce a esordire in A a 16 anni non è cosa che succede tutti i giorni. Solo dopo ho realizzato.
Dopo l’esordio a Torino, riesci anche a calcare l’erbetta di casa.
Esatto. Quell’anno giocai due partite, e fortunatamente riuscii a realizzare il sogno di giocare al Sant’Elia. Era Cagliari-Parma, e vincemmo 1-0 grazie a un gol di Kallon.
La stagione si conclude con una brillante salvezza. L’anno dopo parte Ventura e arriva Tabarez.
Ricordo che prima del campionato spese delle parole bellissime per me. Avevo ancora 16 anni e partii in ritiro carico come una molla, facendo un pre campionato straordinario. Più si avvicinava il campionato e più si provavano la formazione titolare, e spesso venivo schierato anche dall’inizio. Poi arrivò una delle primissime sfortune della mia carriera. Prima dell’esordio di Roma contro la Lazio (sconfitta per 2-1 con gol di Fabian O’Neill, ndr) mi feci male al ginocchio. Fui costretto a operarmi. Tabarez andò via, arrivò Ulivieri e a gennaio andai al Siena.
Abbiamo toccato un tasto dolente, quello relativo agli infortuni. La sensazione è che, proprio a causa dei continui stop, il pubblico non abbia mai potuto apprezzare il vero Andrea Pisanu.
Sì, lo penso anch’io. Mi piace dire che sono stato fortunatissimo a giocare in Serie A, in Coppa Uefa e a realizzare i sogni che avevo da ragazzino. Dall’altro lato, non posso che ammettere di essere stato spesso perseguitato dalla sfortuna. Gli infortuni mi hanno colpito sempre nei momenti chiave, e mi hanno tolto anni interi di carriera. Sommando le 6 operazioni alle ginocchia, ho passato circa tre anni e mezzo in riabilitazione. Senza contare, poi, la marea di infortuni muscolari che mi sono capitati. Però vuol dire che la mia strada era quella. Ci sono stati momenti durissimi, perchè spesso tornavo più carico di prima e subito mi rifacevo male. Il vero Pisanu si è visto a sprazzi e per così poco tempo che è passato quasi inosservato. E’ normale avere dei rimpianti, però adesso a 32 anni sono contento per aver fatto il massimo, nonostante tutto quello che mi è capitato.
Parliamo di ruoli: nasci attaccante, poi pian piano ti sposti sulla fascia.
Fu Malesani a inventarmi esterno d’attacco nel 4-3-3, ai tempi del Verona. Poi, pian piano, sono arrivato a ricoprire tutta la fascia anche con allenatori che adottavano il 4-4-2. Avevo corsa, gamba e pure tecnica, grazie al lavoro fatto nelle giovanili del Cagliari. Da esterno ho prodotto la mia miglior stagione della carriera, a Parma. 26 partite, 4 gol, profumo di Nazionale e i complimenti di Mancini nel sottopassaggio di San Siro. Poi febbraio il crac al ginocchio e la stagione finita. Quell’anno avrebbe potuto cambiare la mia storia. Un’operazione dopo l’altra mi rendevo conto che il corpo iniziava a non rispondere più come prima. Chi ha avuto problemi simili ai miei sa di cosa parlo. Se prima potevo fare 15 kilometri a partita, ora posso farne al massimo 10. Ed è per questo che, negli ultimi anni, mi sono spostato sempre più verso l’interno del campo.
Hai accennato all’Inter e a Mancini. Quanto fu concreta la possibilità di approdare in nerazzurro?
Se ne parlò a ridosso del mercato di riparazione. L’Inter cercava un esterno, ma nè io, nè il Parma ricevemmo offerte ufficiali, e alla fine presero Maniche. L’unica battuta a proposito fu quella del presidente Ghirardi, che mi fece capire che non mi sarei mosso. Tra l’altro in Emilia stavo bene e non sarei mai andato via a metà stagione. A maggio poi, arrivò la beffa: retrocessione in Serie B all’ultima giornata per mano dell’Inter di Ibrahimovic.
Negli anni hai messo le radici a Parma. Possiamo considerarla un po’ la città del tuo destino.
Assolutamente. A Parma sono arrivato nel 2004 che ero ancora un ragazzino, e sono maturato sia come calciatore che come uomo. Ricordo perfettamente il giorno del mio ri-esordio in Serie A, in una partita contro il Milan persa per 2-1. Quella sera mi ritrovai a piangere di gioia e di liberazione, perchè nonostante le mille difficoltà ero riuscito a riprendermi tutto. Inoltre in Emilia ho trascorso sette anni bellissimi anche sotto il profilo personale, durante i quali ho conosciuto mia moglie e sono diventato papà. Parma mi dato tutto insomma, anche la sicurezza economica. E’ una città che mi è rimasta nel cuore, e potrei anche tornare a viverci.
Nonostante l’idillio, arriva la separazione dalla città emiliana.
Anche in quel caso fu un problema di comunicazione. In B si ripartimmo con Cagni allenatore, poi arrivò Guidolin. Non avevamo un rapporto splendido, devo ammetterlo. Una volta ottenuta la promozione, in Serie A non giocavo mai. Non stavo bene fisicamente, ma non lo volevo accettare. Lui, dal canto suo, avrebbe potuto prendermi in maniera un po’ diversa. Nessun rancore, comunque. Gli dissi chiaro e tondo che era il miglior allenatore che avessi mai avuto. Però volevo ancora giocare e rendermi utile, allora parlai col presidente e gli chiesi di cedermi.
Ed ecco che arrivi a Bologna. Cambi città, ma la sfortuna ti segue.
Arrivai a Bologna di lunedì. Mi allenai regolarmente martedì, mercoledì e giovedì in vista della partita della domenica successiva contro il Milan. Poi, proprio a ridosso del match, rimediai uno strappo. Altri due mesi di stop forzato. A quel punto andai in crisi nera. Non mi vergogno a dirlo, ma ebbi bisogno di farmi aiutare sul piano psicologico, perchè stavo male fisicamente e mentalmente.
A soli 28 anni, la tua carriera sembrava essersi arenata.
Stavo per smettere, non volevo più saperne. Poi pian piano, grazie anche alle persone a me care, tornai poi in campo e giocai quella che è rimasta la mia ultima partita in Serie A proprio al Sant’Elia contro il Cagliari. La partita finì 1-1 e feci l’assist per il momentaneo vantaggio di Adailton. Fu la chiusura del cerchio, insomma.
L’anno dopo, a Bologna, iniziano i problemi.
Ero stato scambiato con Valiani, giocatore amatissimo dalla piazza. E già quello non mi mise in una posizione semplice di fronte ai tifosi. Poi arrivò Porcedda, e tutti sanno come si svilupparono le vicende societarie. In quel periodo a Bologna l’aria era abbastanza pesante per i sardi. Inoltre dovetti subire pure il sesto intervento al ginocchio proprio pochi giorni prima dell’inizio del campionato. Tornai dopo quattro mesi, ma capii subito che società e tifosi avevano perso la fiducia nei miei confronti. A quel punto avrei potuto godermi lo stipendio senza far nulla, come fanno tanti altri, ma io mi sentivo ancora un calciatore. E per questo decisi di andare al Prato.
Squadra che ti offre un’occasione di pronto riscatto, seppur in Lega Pro.
Feci un’annata incredibile, con 11 gol segnati in 26 partite. Ricordo ancora la festa dopo lo spareggio salvezza col Piacenza. La gente mi diede un affetto incredibile.
Finita la festa si torna a Bologna.
Misero subito le cose in chiaro dicendo che non c’era spazio per me e che dovevo cercarmi squadra. Non volevo stare fuori rosa. Non trovai nulla, molti non si fidavano, perchè avevo ormai la nomea di giocatore perennemente rotto. Allora rimasi lì da luglio fino a dicembre, fino a quando non incontrai il mio amico Bernardo Corradi. Lui giocava già nei Montreal Impact, e la squadra era in Italia per una tournèe. Chiesi, visto che da tempo volevo fare un’esperienza all’estero, se c’era la possibilità di essere ingaggiato, considerato anche il fatto che metà dello stipendio lo avrebbe pagato il Bologna. Fui impiegato in una partita amichevole contro la Fiorentina, all’allenatore piacque il mio modo di giocare e allora firmai un contratto fino al 31 dicembre successivo.
E in Canada ti togli qualche soddisfazione.
Tante partite da titolare, i primi playoff, un gol, e per poco che sia, anche lo sfizio di giocare la Champions del Centro America. Poi a dicembre scorso il ritorno in Italia per fine prestito. Il resto è storia recentissima, col rientro al Prato: l’unica squadra che avrei accettato in Italia. Sono felice qui, la gente è affettuosa e l’ambiente è ideale. Ma in futuro non escludo una nuova esperienza all’estero.
Qual è il giocatore più forte con cui hai giocato?
Ho avuto la fortuna di giocare con tanti giocatori forti, facendo un solo nome farei un torto agli altri. Potrei citare Gilardino, l’anno in cui fece 24 gol, prima di andare al Milan. Ma quando ero ragazzino ebbi la fortuna di vedere da vicino anche due campioni come Roberto Muzzi e Fabian O’Neill. Poi ci sarebbe Domenico Morfeo, che ha fatto la metà di quello che poteva fare, ma non ho mai visto un sinistro e una visione di gioco come la sua. Un anno fece 16 assist per Gilardino, un talento incredibile. Sempre a Parma, ho giocato con Giuseppe Rossi, ma anche con giocatori sottovalutati come Grella e Bresciano. E che dire del tridente del Verona Camoranesi-Mutu-Frick? Fare un solo nome sarebbe un delitto!
E per quanto riguarda gli allenatori? Quali sono quelli con cui ti sei trovato meglio?
Tutti i tecnici che ho avuto mi hanno insegnato qualcosa, a dire il vero. Tra quelli che ricordo con maggior piacere c’è sicuramente Ventura, perchè è l’allenatore che mi ha fatto esordire in Serie A, e secondo me tutt’ora rimane uno dei più preparati in circolazione. Poi devo citare Guidolin, anche se, come ho detto, con lui non ho avuto un grandissimo rapporto. In generale, comunque, credo che molti allenatori apprezzassero il mio modo di giocare.
Perchè?
Ho giocato 86 partite in Serie A, e 72 dal primo minuto. Se un allenatore non crede in te non ti fa partire dall’inizio. Con Di Carlo, ad esempio, ho avuto un rapporto schietto, vero, ci dicevamo le cose in faccia. Poi ho avuto Silvio Baldini che purtroppo ora non allena più. La gente lo ricorda solo per il calcio nel sedere a Di Carlo, ma è stata una delle persone più vere nel mondo del calcio. E questo proposito avrei un aneddoto.
Raccontacelo.
Arrivai il primo anno a Parma dopo l’esperienza disastrosa di Varese. In gialloblù c’erano giocatori incredibili come Frey, Morfeo e Adriano, e la verità è che potevo benissimo andare a piegare le maglie assieme magazziniere, tanta era la mia utilità in rosa. Io però stavo zitto, e non mi lamentavo mai. Nemmeno quando mi usavano da tappabuchi in partitella chiedendomi di fare all’occorrenza anche il terzino. Nel frattempo cercavo una sistemazione in C, ma non riuscivo a trovare nulla. A un certo punto i nazionali andarono via per rispondere alle convocazioni, e rimanemmo a fare allenamento senza di loro. Dovevo assolutamente sfruttare l’occasione per mettermi in mostra. Facemmo un’amichevole in famiglia, e io andavo a duemila. Sembravo posseduto. Baldini allora fermò la partita iniziò a insultarmi in una maniera mai vista: “Tu sei proprio un coglione, perchè con le qualità che hai non riesci nemmeno a trovare una Serie C. Vedi di darti una sveglia, perchè potresti arrivare a giocare 100 partite in A, ma se continui così non ci riuscirai mai”. In quel momento scattò qualcosa dentro di me. Decisi di riprendermi tutto. Baldini, per far capire il personaggio, non mi fece esordire contro una “piccola” o in Coppa Italia, ma in una partita di Coppa Uefa, a Bilbao, davanti a 70mila persone. Poi fu esonerato perchè i risultati non erano dalla sua parte, ma è stata indubbiamente una delle migliori persone che abbia incontrato nel mondo del calcio.
La più grande delusione della tua carriera, al di là degli infortuni, quale è stata?
La retrocessione col Parma nel 2008. A febbraio avevamo 6 punti di vantaggio dalla zona retrocessione, e mi feci male al ginocchio. Mi sentivo impotente, volevo far qualcosa per aiutare i miei compagni ma non potevo. Volevo assolutamente riuscire a tornare in tempo per l’ultima di campionato contro l’Inter e forzai tantissimo i tempi di recupero, tanto che i postumi di quell’infortunio recuperato in maniera non ottimale, me li porto dietro ancora. Fu una grandissima delusione.
E la più grande gioia?
Sicuramente il primo gol in Serie A contro il Livorno, poi il primo gol in Coppa Uefa a Liegi, e, infine, la rete realizzata al Prater di Vienna, nella stessa porta in cui segnò Rijkaard nella finale di Coppa dei Campioni. Ci metterei anche l’esordio col Cagliari, ma la realtà è che non me lo sono assaporato più di tanto.
Sei stato tra i primi ad aderire alla nazionale sarda. Al di là dell’intento benefico dell’iniziativa, pensi che possa essere una vetrina importante per il calcio sardo?
E’ una bella idea, senz’altro. Può essere una vetrina per mettersi in mostra, ma anche un’occasione buona per esplicitare il nostro forte senso di appartenenza. Sia che ci giochino dei ragazzi giovani, oppure altri meno giovani come il sottoscritto, che hanno già fatto una carriera, ma che vorrebbero levarsi la soddisfazione di indossare almeno una volta la maglia della nazionale sarda.
Hai ancora un sogno da realizzare prima di smettere?
Di sogni ne avrei ancora tanti, però sono tutti irrealizzabili! Le 100 partite in A non le farò, e tantomeno mi toglierò lo sfizio di giocare in nazionale o in Champions. Guardo semplicemente avanti, giorno per giorno. Mi diverto, mi piace stare con i ragazzi più giovani e dar loro dei consigli. Quando appenderò le scarpette al chiodo non mi metterò mai ad allenare perchè non mi sento portato, ma potrei essere un buon secondo. Vorrei dare ai giovani degli strumenti e aiutarli ad affrontare il loro percorso nel mondo del calcio.
Roberto Rubiu